Luca Bocci

Attorno al mondo la gente va assolutamente pazza per il Natale, dando vita ad ogni sorta di festeggiamento tradizionale. Da noi in Toscana le cose invece vanno in maniera molto diversa. Il nostro rapporto con il Natale è per così dire conflittuale. La festa in sé ci piace, ma fa troppo freddo per celebrarla come si deve. La Pasqua, quella sì che è la vera festa tradizionale toscana. Eppure, in giro per la regione si trovano ancora parecchi eventi genuini le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Questa volta vi presentiamo cinque modi curiosi che noi toscani abbiamo per festeggiare la nascita di Gesù Cristo (ASCOLTA LA STORIA).

Molte di queste feste hanno a che fare col fuoco ed origini probabilmente pagane, un modo per celebrare il giorno più corto dell’anno, il solstizio d’inverno e l’inizio della rinascita della natura. Dalla cittadina ai piedi di un vulcano che festeggia la vigilia con fiaccole enormi al villaggio in Garfagnana dove si costruiscono falò ancora più imponenti sulle colline vicine. Sapete poi che fino a non molti anni fa, i bambini toscani credevano che i doni non li portasse né Babbo Natale né il Bambin Gesù ma l’alberello magico che bruciava per giorni nei loro camini. Ci sono poi modi decisamente meno seri per celebrare il momento, come la gara di lancio del panforte che ogni anno da Santo Stefano a Capodanno cattura l’attenzione dei cittadini di Pienza.

Nella prossima puntata parleremo dei piatti che non possono assolutamente mancare sulla tavola delle feste di ogni toscano che si rispetti – non mancate, ci saranno parecchie sorprese. Cosa ne pensate di queste tradizioni? Ne avete una che vi sta particolarmente a cuore dal vostro angolo di mondo? Fatecelo sapere partecipando alla conversazione sui nostri profili social:
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– Natale in Toscana, cinque strane tradizioni

Guardandomi in giro non posso che notare come il rapporto tra noi toscani e le festività invernali sia piuttosto strano. Se il resto del mondo va pazzo per questo periodo dell’anno e rischia la bancarotta per trasformare la propria casa in una piccola Las Vegas o farsi arrivare da mezzo mondo le prelibatezze più ricercate, da noi le cose vanno diversamente. Gli eccessi di certi foresti o di qualche vicino ambizioso ci lasciano interdetti. Il toscano medio considera queste stranezze scuotendo la testa severo. Festeggiare va bene, ma perché qualcuno dovrebbe sentire il bisogno di andare oltre? Per far bella figura coi vicini?

Non è che il Natale ci stia antipatico, anzi. Nei tanti anni passati all’estero ho sempre fatto carte false pur di fare in modo di passare il Natale a casa, in famiglia, anche quando voleva dire lavorare per l’ultimo dell’anno e prendere il volo di ritorno alle 15 del giorno di Santo Stefano. La British Airways se ne accorse e, dopo il terzo anno, mi offrì un calice di champagne. Bel pensiero, che mi lasciò di stucco. Non mi era mai successo prima né credo che mi succederà di nuovo. Il Natale va bene, ma il costante battage pubblicitario, le fastidiose musichette che senti ovunque ci stanno decisamente meno simpatiche. La cosa non è affatto casuale. Basta guardarsi indietro per rendersi conto che dalle nostre parti il Natale non è mai stato la festa più importante dell’anno. La Pasqua sì che è una festa toscana, per quella si era autorizzati ad andare oltre. Troppo freddo, giornate troppo corte, che gusto c’è a celebrare chiusi in casa? Le passeggiate dopo il mega-pranzo di Natale in centro, lo stanco struscio sul corso con i negozi chiusi e le luci colorate lampeggianti mi hanno sempre fatto una gran tristezza. Per fortuna in famiglia ci siamo risparmiati volentieri i cinepanettoni, ma la sensazione che ricordo meglio è quella di un certo sollievo. E anche questa festa ce la siamo messa alle spalle, per così dire.

Come si spiega questa nostra ritrosia? In parte col fatto che ci piace tanto fare i bastian contrari, in parte perché questa ossessione per il Natale ci sembra poco genuina, una sorta di imposizione. Lo stesso fatto che il Natale si trovi proprio alla fine dell’anno, garantendo ai più previdenti un lungo periodo di riposo invernale, che può durare fino alla Befana, non è una cosa nostra. Sia a Pisa che a Firenze, l’anno non iniziava il primo gennaio ma di primavera, il 25 marzo. Questa tradizione fu ben dura a morire e ci vollero più di due secoli dalla riforma del calendario gregoriano perché le città toscane fossero costrette ad alzare bandiera bianca. Non fu una scelta volontaria, ci volle il decreto del 1749 del Granduca Francesco Stefano di Lorena, il padre di Maria Antonietta per rompere la resistenza dei toscani. Questo spiega perché di tradizioni genuinamente toscane legate al Natale non ce ne siano molte.

Gran parte degli eventi organizzati dalle nostre parti sono chiaramente stranieri e sembrano davvero fuori posto nei nostri centri storici. Villaggi natalizi? Piste per pattinare sul ghiaccio? E che siamo, in Olanda? Questo scimmiottare le tradizioni altrui ci sembra non solo inutile ma quasi offensivo. Eppure, a guardar bene, qualche tradizione nostrana si riesce a trovare. Insomma, si può anche celebrare il Natale alla toscana, senza omini vestiti di rosso con la barba bianca, renne, abeti o robaccia del genere. Questa settimana vi presentiamo cinque strane tradizioni toscane al cento per cento legate al Natale. Venerdì prossimo parleremo invece di quello che non può assolutamente mancare sulle tavole dei toscani in questo periodo di stravizi. Come al solito non mancheranno le sorprese!

Iniziamo con la tradizione più tradizionale di tutte e allo stesso tempo più strana, almeno per noi toscani “moderni”. Magari ne avete sentito parlare dai vostri nonni, ma quella che era la pietra angolare del Natale toscano è sparita quasi completamente. Anche se ci sembra strano, per secoli i bambini da noi pensavano che i doni non fossero portati né da Babbo Natale né dal Bambin Gesù ma da un pezzo di legno magico, lo stesso che bruciava per giorni e giorni nel loro camino. Alcuni toscani attempati continuano a chiamare il Natale “Ceppo” e Santo Stefano “Ceppino”, anche se, onestamente, a me non è mai capitato. Nessuno sa bene quando sia nata questa antica tradizione toscana, ma sicuramente le sue radici affondano nel torbido passato pre-cristiano della nostra terra. C’è qualche studioso che azzarda un’ipotesi: il ceppo sarebbe il modo di far sopravvivere le festività pagane per il solstizio d’inverno dopo l’arrivo della nuova religione, ammantate di una sottile patina cristiana per evitare di incorrere nell’ira della Chiesa Cattolica.

La spiegazione ufficiale per questa tradizione dalle chiare origini pagane è sempre la stessa: il fuoco sempre acceso nel camino serve per scaldare il Bambin Gesù quando viene di notte a benedire la famiglia. La scusa non era ed è molto convincente, cosa che non sfuggì a molti uomini di chiesa. Nel 1424 a scagliarsi contro la tradizione del ceppo fu San Bernardino da Siena, predicatore francescano di rara severità. “Per la natività di nostro Signore Gesù Cristo in molti luoghi si fa tanto onore al ceppo. Dalli ben bere! Dalli mangiare! El maggiore della casa il pone suso e falli dare denari e frasche. Perché è così in Natale rinnegata la fede e perché so’ convertite le feste di Dio in quelle del diavolo? Si vuole mettere el ceppo nel fuoco et che sia l’uomo della casa quello che vel mette, coloro i quali pongono il ceppo al fuoco la vigilia di Natale, conservano poi del carbone alcuni contro il cattivo tempo pongono fuori della propria casa l’avanzo del ceppo bruciato a Natale”.

Eh già, perché a noi toscani non è mai piaciuto fare le cose a metà. Una volta preso il disturbo di salvare una festività pagana, perché mai lasciarne indietro la parte migliore? Le ceneri del fuoco sacro che celebrava il giorno più corto dell’anno erano infatti magiche e portavano buona fortuna alla famiglia. Nelle nostre campagne si è continuato fino a non molti anni fa a spargerle sui campi per assicurarsi un raccolto migliore, usarle sugli animali per favorirne la fertilità o lasciarle fuori dalla porta per proteggere la casa dai fulmini. I contadini adocchiavano il ceppo più adatto e lo mettevano a seccare settimane prima della festa. I trucchi per farlo bruciare a lungo erano svariati. C’era chi lo ricopriva con un miscuglio di grasso di maiale e cenere ma ben pochi ceppi riuscivano a bruciare fino alla Befana.

La tradizione era diffusa in tutta la Toscana ma in città era decisamente meno genuina che in campagna. A Firenze le famiglie più ricche decoravano in ogni modo il proprio ceppo, lo bagnavano con vino o burro per poi accenderlo prima di incamminarsi verso la Messa di mezzanotte. Come procurarsi il ceppo in città? Tutti a tagliare gli alberi con l’accetta? Certo che no. Nei giorni prima di Natale, sotto la loggia del mercato arrivavano venditori dalla campagna coi barrocci carichi di ceppi di albero. Visto che c’erano, altri venditori offrivano ogni sorta di decorazione, giocattoli e dolciumi per i bambini, il vero, tradizionale mercatino di Natale toscano.

Col tempo, le famiglie più ricche iniziarono ad appendere un burattino di legno sopra il Ceppo, come per dare una forma umana al magico pezzo di legno che portava i regali ai bambini, che, ora come allora, andavano pazzi per questa festa. Il momento chiave era l’accensione del ceppo, che seguiva un rituale ben preciso. I bambini erano invitati ad andare in una stanza diversa, dove recitavano una preghierina, l’Ave Maria del Ceppo, che di religioso aveva ben poco. “Ave Maria del Ceppo / Angelo benedetto! / L’Angelo mi rispose / Ceppo mio bello, portami tante cose!”. A questo punto tornavano di fronte al camino, dove trovavano i loro regali, giocattoli, dolci e chi più ne ha più ne metta. Col tempo, visto che trascinare in giro pesanti ceppi era troppo complicato, molti in città iniziarono a fare il ceppo con piccoli tronchetti di legno impilati a forma di piramide, con abbastanza spazio tra di loro per poterci mettere i regali per i bambini. In campagna era tutta un’altra storia – lì il Ceppo aveva un significato diverso ed era scelto in maniera accurata. I nodi e le venature stavano a significare l’unità e l’armonia della famiglia ed il fuoco rimaneva sacro, una sorta di rituale volto a celebrare l’albero, collegamento vivo e vitale tra la Madre Terra ed il Cielo. Se poi il fuoco riusciva ad allontanare gli spiriti maligni o assicurava un raccolto più ricco, ancora meglio. Insomma, sentita o meno, genuina o commerciale, questa tradizione è rimasta viva per secoli, per poi essere distrutta e cancellata dall’avanzata del consumismo e dalla forza della pubblicità. Il culto di Babbo Natale e dell’albero, di chiare origini nord-europee, hanno distrutto la mistica del Ceppo. D’altro canto, visto che ben poche famiglie hanno dei camini in casa, come avrebbe potuto sopravvivere il magico alberello toscano? L’era del Ceppo è purtroppo finita da un pezzo.

La seconda strana tradizione del Natale toscano ha anch’essa radici molto profonde e viene da un’affascinante cittadina ai piedi del Monte Amiata, l’antico vulcano che fa concorrenza agli Appennini in quanto a neve e piste da sci. Abbadia San Salvatore è riuscita a mantenere viva un’antichissima festa del fuoco per secoli legandola alla vigilia di Natale. Ogni anno, infatti, la cittadina montana della Val d’Orcia si trasforma nella “Città delle fiaccole”. C’è chi dice che la tradizione sia nata come un modo per esorcizzare la presenza del vulcano che domina l’orizzonte, sebbene sia inattivo da decine di migliaia di anni, ma è più facile che si tratti dell’ennesima festa pagana cristianizzata alla bell’è meglio. Certo è che gli abitanti della cittadina si sentono ancora “figli del fuoco” e sono affezionatissimi a questa antica festa, partecipando in gran numero. I preparativi iniziano all’inizio dell’autunno, quando i “fiaccolai” iniziano a cercare i tronchi giusti da usare per costruire le loro “fiaccole”, alte piramidi di legno che vengono costruite nei vari quartieri della cittadina e che talvolta sono alte più di sette metri. Queste ordinate cataste che adornano le stradine medievali non sono tenute insieme da colla o chiodi, ma usando antiche tecniche segrete conservate gelosamente dalle famiglie dei fiaccolai.

La festa del fuoco è profondamente legata all’identità di questa cittadina, nata sotto il vulcano e sopravvissuta per secoli dalla grande miniera dove si rischiava la vita per estrarre il cinabro, il minerale usato per produrre il mercurio fin dall’antichità. I badenghi sapevano bene che dovevano la propria sopravvivenza alla montagna di fuoco, che molti consideravano quasi sacra. Dopo settimane di lavoro, la festa inizia con il rito dell’accensione delle torce. Alle 18 centinaia di persone si riuniscono di fronte al palazzo comunale per assistere alla “benedizione del fuoco” e all’accensione della prima fiaccola, con la banda comunale che suona canzoni natalizie. A questo punto i vari capi fiaccola si avvicinano ed accendono le proprie torce uno alla volta, per poi incamminarsi verso le proprie fiaccole. Una alla volta, l’onda di fuoco si allarga a tutta la cittadina, rendendo questa notte davvero magica. Le fiaccole bruceranno per ore, fino a notte inoltrata, uno spettacolo davvero unico al mondo. Ora che la festa sta diventando sempre più popolare, ad Abbadia San Salvatore si sta cercando di aggiungere altri eventi durante il mese di Dicembre, per provare a convincere i turisti a fermarsi più a lungo. Nessuno di questi eventi, purtroppo, è altrettanto genuino, il che rende il tutto un poco patetico. Per quanto ci riguarda, ci risparmiamo volentieri le altre celebrazioni. La vera festa è quella della Vigilia, la festa del fuoco tanto antica quanto affascinante. Non ho mai avuto occasione di vederla di persona ma degli amici mi hanno detto che è un’esperienza che merita. Se state cercando un modo per passare una vigilia di Natale diversa, tenetela a mente. Se riuscite a farci un salto, diteci com’è dal vivo che siamo davvero curiosi.

E cosa faceva la Chiesa per Natale, mi dite? Beh, nel corso dei secoli di feste e celebrazioni particolari ne sono nate parecchie, tutte più o meno finite nel dimenticatoio. Ne sono sopravvissute alcune, anche se nessuna così affascinante come quella che si tiene ogni anno alla vigilia nel castello medievale di Monteriggioni. La cittadina, famosa per le potenti fortificazioni, nacque nel 1219 come fortezza voluta da Siena per difendere il fragile confine con la vicina ed aggressiva Firenze. La posizione era effettivamente ideale, visto che dominava un ampio tratto della Via Cassia, strada consolare romana che collega il Nord Italia con la capitale dell’Impero. L’antica fortezza è salita all’onore delle cronache qualche anno fa, quando la casa di software Ubisoft la scelse come base di Ezio Auditore, eroe della fortunatissima saga di videogames “Assassin’s Creed”. Nelle ultime uscite, il castello non è più presente ma gli appassionati non se ne curano e continuano a visitare Monteriggioni in gran numero. Lo scorso 26 giugno un nutrito gruppo di cosplayers si sono presentati in Val d’Elsa tutti in costume, celebrando le gesta del proprio eroe virtuale. Per noi toscani, la fortezza resterà famosa per esser stata l’unica a non esser mai stata conquistata dalle armate fiorentine, sopravvivendo a decine di assedi. L’unica volta che ci riuscirono fu solo grazie al tradimento del capitano della guarnigione, Giovanni Zeti, fuoriuscito fiorentino. Quando un colpo fortunato dei cannoni nemici distrusse il pozzo, il capitano capì che pochi sarebbero riusciti a sopravvivere all’assedio. Per evitare il peggio si presentò al comandante fiorentino, il Marchese di Marignano, offrendo la resa della fortezza in cambio della restituzione della cittadinanza di Firenze, delle proprietà che gli erano state confiscate e dell’onore delle armi. Era il 27 aprile del 1554 e l’anno dopo avrebbe segnato la sconfitta definitiva della Repubblica di Siena e con essa la fine dell’epoca comunale in Italia. A quanto pare, l’anima del traditore continua ad essere legata alla fortezza che non riuscì a difendere. Giovannino vagherebbe ogni notte di luna piena sulle sue mura, cercando di spiegare a tutti il perché del suo tradimento, penitenza eterna per il suo atto infame. Per i pellegrini medievali, invece, Monteriggioni era solo una delle ottanta fermate canoniche della famosa Via Francigena, il cammino che portava i fedeli da Canterbury fino a Roma. Quando Sigerico il Serio, monaco sassone ed Arcivescovo della città, descrisse il cammino complicato e pericoloso che lo portò fino alla Città Eterna, parlò di “Burgenove”, una “città nuova”, corrispondente più o meno al paesino di Abbadia a Isola, dove una nuova abbazia era stata da poco aperta per dare rifugio e protezione ai pellegrini.

Più di mille anni dopo il viaggio del cardinale sassone, i fedeli di Monteriggioni hanno iniziato a celebrare la memoria di quei coraggiosi pellegrini del passato riproducendo una piccola parte del loro viaggio. Niente di eccezionale, detto tra di noi, una specie di processione dal castello del 12° secolo fino all’abbazia, in piena notte, illuminati solo dalla luce di centinaia di torce. Non sarà una maratona, ma i quattro chilometri tra boschi e campagna che si concludono con la Messa di Mezzanotte nell’antica abbazia sono comunque un’esperienza fuori dal tempo. Nonostante tutto e la modernità dei nostri tempi, quelle stradine riescono comunque a dare un’idea dell’esperienza del pellegrino medievale – tranne, ovviamente, le bestie feroci ed i briganti dietro ogni curva – quelli, fortunatamente, sono un ricordo del passato. Il panorama, invece, è quasi perfetto: le stradine tra i boschi della Val d’Elsa sembrano rimaste le stesse. La camminata non è minimamente paragonabile a camminare da Canterbury a Roma, ma riesce comunque a darti un’idea di quanto scomoda e pericolosa fosse come esperienza.

La processione è organizzata dal comune con l’aiuto di un gruppo di volontari molto coscienziosi. Punto d’incontro alle nove di sera nella piazza principale di Monteriggioni, dove in attesa del colpo di pistola, ci si può meravigliare di fronte alla maestosità delle mura ed il fatto che siano sopravvissute quasi intatte fino ai nostri tempi. Alle nove e mezza in punto, candela o torcia in mano, ci si incammina verso l’abbazia nella notte scura e spesso parecchio frigida. La vista di centinaia di torce che si muovono lentamente per le stradine di campagna è sicuramente qualcosa che non si vede tutti i giorni. I sentieri non sono particolarmente difficili ma gli organizzatori consigliano comunque di portare scarpe “adeguate”. A lato del sentiero i cartelli che indicano ai coraggiosi emuli dei pellegrini del passato che si trovano in effetti sulla Via Francigena. Non sono molti, ma ci sono comunque persone che, per un voto o un eccesso di fede, si decidono ad intraprendere il lungo e faticoso cammino verso Roma. Ci vuole circa un’ora per arrivare ad Abbadia a Isola, dove le campane dell’abbazia sono pronte ad accogliere i camminanti. Il paese è sicuramente meno impressionante di Monteriggioni, ma comunque affascinante. Le mura dell’abbazia fortificata sono sparite secoli fa, ma l’atmosfera medievale è ovunque, dalla chiesa romanica al chiostro, dove gli organizzatori sono pronti ad offrire un ristoro rustico ai pellegrini, come da tradizione. Prezzi popolari e menu non particolarmente raffinato ma genuino e gustoso, dalla fetta di torta fatta in casa, alle salsicce crude da cuocere con un ramoscello sul fuoco, fino all’inevitabile bicchiere di Vin Santo, che a Natale dalle nostre parti non può proprio mancare. La chiesa non è enorme ma ha all’interno parecchie opere d’arte di pregio. Tempo di ammirarle prima della Messa di Mezzanotte non ce n’è molto, ma meglio di niente. Finita la messa, tempo di salire sulla navetta e tornare al parcheggio di Monteriggioni. Non è un’esperienza per tutti, questo è poco, ma se sentite forte il richiamo della fede, l’esigenza di affermare che, nonostante il consumismo imperante, questa resta comunque una festività religiosa, potrebbe valerne la pena. Certo, se il solo pensiero di passare un’ora e passa a camminare di notte nella frigida foresta in piena campagna vi fa rabbrividire, forse è meglio pensare ad altro. Ad ognuno il suo.

Per la nostra quarta tradizione natalizia toscana, ci ritroviamo ancora tra le foreste e le montagne della Garfagnana, il cuore selvaggio della Toscana del nord. Più precisamente ci fermiamo a Gorfigliano, grazioso villaggio vicino Minucciano, dove gli abitanti sono riusciti in qualche modo a mantenere viva una tradizione vecchia come il mondo. Ebbene sì, anche stavolta c’entra il fuoco e, sì, nessuno sa bene quando sia iniziata. I volontari del paese costruiscono enormi cataste di legna sulle colline che circondano il borgo, pronti ad accenderle allo stesso momento, quando le campane della chiesa segnalano l’inizio della preghiera della vigilia. I cosiddetti “natalecci” sono decisamente più impressionanti delle fiaccole di Abbadia San Salvadore, visto che spesso sono alti oltre 20 metri. Comprensibile, visto che devono essere visti da lontano, ma comunque notevole. I volontari dei vari quartieri iniziano a lavorare un paio di settimane prima di Natale, piantando per terra grossi pali ai quali poi fissare in qualche modo i tronchi e rami che costituiranno il nataleccio. Queste cosiddette “tempie” sono alte più di venti metri e servono per riuscire a costruire delle torri quasi perfettamente cilindriche prima della vigilia. Come succede spesso in questi casi, le vere origini dei natalecci sono poco chiare. Alcuni studiosi dicono che è l’evoluzione di una festività celtica per il solstizio d’inverno, altri invece affermano che sarebbe stato un modo per mantenere gli abitanti del paese allenati nel costruire e mantenere i fuochi segnalatori, fondamentali nel turbolento Medioevo per segnalare ai paesi vicini l’arrivo di soldati nemici. La parte religiosa arrivò più avanti, con la solita scusa: il fuoco serve per riscaldare il Bambin Gesù quando visita il paese. L’anno scorso, nonostante la pandemia, ben otto natalecci furono costruiti dai vari quartieri del paese.

Una volta, qualche anno fa, a spingere i paesani a darsi da fare era la voglia di battere i rivali ma, visto che in Toscana non riusciamo mai a fare le cose senza accapigliarsi l’uno contro l’altro, gli organizzatori decisero di lasciar perdere la giuria e cancellare la competizione. La rivalità tra i rioni era talmente feroce da dare origine a liti che duravano mesi – gente ruvida e dal carattere focoso i garfagnini. Meglio prenderli con le molle, sempre. Alla fine, anche senza la competizione tra rioni, la tradizione è sopravvissuta ed è fonte di grande orgoglio per i paesani e per tutti i garfagnini in generale, molti dei quali passano la vigilia proprio a Gorfigliano per godersi lo spettacolo. Ancora una volta, magari non è un’esperienza per tutti, visto che i fuochi non sono ad ogni angolo di strada come alle pendici dell’Amiata ma sulle colline sopra il paese. Comunque una scena non comune, che merita di essere vissuta una volta nella vita. In fondo, non sarebbe sopravvissuta così a lungo se non fosse in qualche modo speciale. I garfagnini sono testardi e scorbutici ma, in generale, sono persone ragionevoli. Se vi capita di passare da quelle parti, potrebbe valerne la pena. Fateci sapere in ogni caso, grazie.

Non tutte le tradizioni di Natale toscane hanno a che fare col fuoco. Alcune sono decisamente meno serie, al limite dello scherzo alla Amici Miei. In questo caso non parliamo di un evento per la vigilia, ma di un torneo molto particolare che inizia a Santo Stefano in molti paesi del sud della Toscana. Dopo un’abbuffata epica durata due giorni interi, tutti abbiamo in casa fin troppi avanzi che ci perseguiteranno fino a Capodanno. La soluzione che gli abitanti di Pienza hanno trovato è sicuramente singolare. Troppo panforte in casa? Perché non organizzare un torneo e vedere chi è più bravo a lanciarlo da una parte all’altra del tavolo senza che cada in terra? Ti distrai. Ecco in estrema sintesi il ragionamento dietro al bizzarro “gioco del panforte”, un passatempo nato forse nelle tavolate di Natale e che gli abitanti della perla del Rinascimento hanno preso estremamente sul serio.

Sotto la maestosa loggia del palazzo comunale, da Santo Stefano a Capodanno si tiene il torneo ufficiale, con molte squadre che si battono per conquistare la corona di campione di lancio del panforte. Cosa serve per giocare? Non molto, a dire il vero, forniscono tutto gli organizzatori. Un tavolo lungo due metri, parecchie forme di panforte incartate a mano, una bella dose di fortuna e poca paura di rendersi ridicolo – quella non deve assolutamente mancare. Nei link in descrizione al podcast abbiamo inserito il regolamento ufficiale del gioco, pubblicato dal sito della pro loco di Pienza. Provate a leggerlo senza scoppiare a ridere, vi sfido. Non c’è niente di così divertente come persone estremamente serie che provano a dare una certa gravitas ad un giochino fondamentalmente stupido. Sul serio, c’è un intero paragrafo dedicato alle proteste nei confronti dell’arbitro – a quando l’introduzione del VAR o della goal line technology? La cosa più assurda è che negli anni scorsi le squadre che volevano partecipare erano così tante che gli organizzatori ne hanno limitato il numero a 32, ognuna composta da sei lanciatori.

Se l’idea del gioco vi fa ridere, sappiate che a Pienza questo gioco lo prendono parecchio sul serio. In piazza viene montato un grande tabellone dove si mostrano i risultati delle varie eliminatorie, come se si stessero giocando i mondiali! Come si vince? Un punto va a chi riesce a far arrivare il proprio panforte più vicino al bordo opposto del tavolo senza che cada. La prima squadra che arriva a sei, vince il set – il primo che arriva a due set, passa al turno successivo. Come succede spesso dalle nostre parti, a Pienza sono andati decisamente oltre. L’idea di fondo potrebbe anche essere divertente, un paio d’ore rilassanti a farsi due risate con gli amici, ma pensate davvero che possa reggere per un torneo che dura sei giorni? Comunque, se vi trovate da quelle parti tra Natale e Capodanno, fateci un salto. Non cambierà il modo in cui vedete il mondo ma di sicuro vi farete una risata. Di questi tempi, ogni risata conta.

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Foto: inToscana.it

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