Paolo Lazzari

L’uomo con le mani conserte dietro alla schiena esamina il veicolo con espressione pensosa. No, non era esattamente quello che aveva in mente. Sì, lo sapeva: fino a qui ha sempre prodotto treni e aerei, quindi il cambio di rotta poteva rivelarsi un rischio. Enrico Piaggio però non può contemplare un fallimento. Per quanto si sforzi di sviluppare centri concentrici intorno a quella motocicletta, proprio non riesce a scorgere un lato positivo. Adesso congiunge indice e pollice e si gratta la nuca. Forse – riflette – affidare l’incarico all’ingegner Renzo Spolti non è stata la migliore delle idee. Anche quel nome – MP5 Paperino – suona fin troppo singolare. La seconda guerra mondiale sta per srotolare i titoli di coda e la Piaggio è conosciuta a livello internazionale come un’eccellenza. Per cui zero discussioni: fisionomia e motore non convincono, serve stracciare tutto e affidare l’incarico a qualcun altro.

Qualcun altro è un ingegnere aeronautico che nella sua carriera ha fatto tutt’altro. Il suo nome è Corradino D’Ascanio e la passione che alimenta pensieri e azioni è sempre stata un passo a due con eliche e velivoli. Ah, c’è dell’altro: Corradino detesta profondamente le motociclette. Per Piaggio, che ha costruito la sua fortuna scansando accuratamente gli schemi precostituiti, si tratta dell’uomo giusto per creare il primo prototipo convincente della nuova linea aziendale. Quando il telefono trilla, dall’altro capo D’Ascanio non appare troppo convinto: “Ma quello è un mondo che non mi appartiene per nulla”, tuona con quel suo ruvido accento abruzzese. Enrico però non sente ragioni e fa bene.

Quello che ne esce è una motocicletta che si fa quasi beffe dei concetti conosciuti all’epoca: la scocca panciuta priva di tunnel centrale, la carrozzeria che nasconde il motore, la seduta larga e comoda, il cambio agile sul manubrio. Corradino si fa dare una mano dal designer di fiducia Mario d’Este, poi è lui ad impugnare la cornetta: “Signor Piaggio, l’abbiamo finita! Venga a vedere”. Ed Enrico arriva: dicono che il celebre nome affibbiato alla motocicletta scaturisca proprio dal suo primo giudizio sul mezzo. “Sembra una vespa“, dichiara per via della parte centrale molto ampia che si abbraccia con la vita stretta e ruggisce, anzi ronza, quando la accendi. Il 23 aprile 1946 – 75 anni fa – il primo prototipo viene brevettato. Si tratta dell’inizio di una scalata inarrestabile, perché Vespa – per il design ineguagliabile, l’affidabilità e le prestazioni convincenti – diventa un prodotto da esportare in tutto il globo.

Al punto che la grande macchina del cinema – italiano dapprima e mondiale poi – non può fare a meno di eleggerla a musa di molteplici pellicole di grande successo. L’incipit è squillante, con Audrey Hepburn e Gregory Peck appollaiati in due sulla motocicletta mentre attraversano la città come una lama che affonda nel burro, in Vacanze romane. Quindi arrivano La dolce vita di Federico Fellini, Padri e figli di Mario Monicelli e, inevitabilmente, Hollywood (American Graffitti, Scarface, Il talento di mr. Ripley e molti altri film la vedono miglior attrice non protagonista).

Un mito, quello della Vespa, che ha saputo percorrere indenne intere generazioni, rinnovandosi senza mai smarrire l’attaccamento alle intuizioni iniziali. L’uomo che detestava le motociclette, dall’alto, se la ride da un pezzo: non avrebbe mai pensato che la cosa che odiava di più l’avrebbe reso così amato da tutti.

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