Prosegue il racconto della storia politica socialista pisana. Stavolta vi proponiamo un’intervista a Sergio Cortopassi, che oltre a una lunga militanza nelle file del Psi è stato sindaco di Castelfranco di Sotto, di Pisa, e più di recente, sempre al Comune di Pisa, consigliere comunale e assessore al Bilancio nella giunta di centrosinistra diretta da Paolo Fontanelli in rappresentanza di una lista civica. Non fa sconti alla storia Cortopassi, indica luci e ombre e si sofferma su alcuni dettagli ancora oggi molto interessanti.

In una recente intervista a Repubblica Massimo D’Alema ha dichiarato che il Pci è sempre stato riformista, pur senza manifestarlo pubblicamente. Che ne pensa?
Confesso di essere leggermente prevenuto nei confronti di D’Alema. E non condivido la sua opinione. Egli sembra persuaso che il Pci nei suoi settanta anni di vita abbia avuto un percorso politico uniforme e razionale. Ma questa ricostruzione storica non è vera, né per il Pci né per il Psi. I due partiti hanno avuto evoluzioni storiche e politiche complesse, non sempre lineari, a volte anche contraddittorie. Il Pci nasce per fare la rivoluzione sull’esempio sovietico. Cosa c’entra questo col riformismo? I comunisti lasciano il partito socialista, a maggioranza massimalista, perché questo si rifiutava di obbedire agli ordini di Mosca e di espellere i riformisti di Turati e Matteotti. I riformisti erano minoranza anche nel partito socialista guidato da Serrati, che infatti provvederà alla bisogna nel 1922, un anno e mezzo dopo, poco prima della marcia su Roma. La cosiddetta svolta togliattiana non fece assolutamente del Pci un partito riformista, e tantomeno lo era nel 1921. Non risulta che la cosiddetta corrente migliorista sia mai stata maggioranza nel Pci. La verità è che il Pci durante il periodo repubblicano ha progressivamente “scoperto”, assorbito e toccato con mano che le esperienze concrete del riformismo socialista rappresentavano il punto più alto delle conquiste politiche e sociali.

Tra gli anni Settanta e Ottanta Psi e Pci furono alleati in moltissime giunte locali…
Sì. L’esperienza delle giunte di sinistra dette una buona prova in quegli anni. I comunisti, bisogna dirlo, avevano assorbito, soprattutto in Emilia e in Toscana, l’esperienza riformista dei 30 anni precedenti, in cui era recuperato tutto il patrimonio costruito nell’arco temporale precedente all’avvento del fascismo. Abbiamo avuto esperienze di buon governo sia in Emilia che in Toscana. Riuscimmo a fare delle cose rivoluzionarie per l’epoca: gli asili nido, l’assistenza farmaceutica a chi non l’aveva. Oggi sembrano cose scontate ma non lo erano assolutamente. Penso che la espressione più alta di riformismo socialista sia stata la battaglia politico parlamentare che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale.

Nel 1985 i socialisti a Pisa ruppero con il Pci, che parlò di trasformismo. Lo scontro tra i due partiti raggiunse livelli altissimi…
Ricordo bene quegli anni, c’era stata la famosa svolta di Craxi. Io avevo fatto il segretario nel 1976, l’anno del Midas. Il cambiamento deciso da Craxi fu molto forte. Ricordo la lettera di Proudhon sull’Avanti!, sotto la spinta degli storici e degli intellettuali socialisti e di area. Craxi cominciò l’operazione di rinnovamento interno al Congresso di Torino, nel 1978. Un congresso “militarizzato” (mi riferisco agli stretti controlli ai quali erano sottoposti sia i delegati che gli invitati), visto il terribile momento storico che stavamo vivendo a causa del terrorismo, in particolare erano i mesi del rapimento dell’on. Moro. In quel congresso fu decisa ed approvata la svolta dell’alternativa socialista. Fui eletto componente del Comitato Centrale per la sinistra socialista..

L’intuizione più grande del leader socialista?
Saper dare corpo e sostanza alla grande voglia di cambiamento e di modernizzazione che ribolliva nel Paese. Il suo momento più alto credo sia stata l’esperienza di governo a Palazzo Chigi: penso all’episodio di Sigonella, ai rapporti dell’Italia con il Medio Oriente, alla lotta all’inflazione, alle proposte di riforma istituzionale, al ruolo dell’Italia in politica estera… numerose sono le grandi intuizioni di Craxi in quegli anni.

E il suo errore maggiore?
Nella fase successiva all’esperienza di governo, forse anche a causa della malattia, credo non abbia valutato appieno che una certa fase politica, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, si era esaurita e non ha saputo costruire il dopo. Forse non aveva ben compreso che il partito si era andato progressivamente feudalizzando, troppo immerso nelle logiche di potere. Eppure negli anni Ottanta, a ben riflettere, c’erano state delle avvisaglie preoccupanti che avrebbero dovuto indurci a riflettere seriamente sullo stato del partito.

Che giudizio si è fatto degli anni di Tangentopoli?
La cosa che più mi ha colpito è la scomparsa subitanea del Psi. Non solo la sua classe dirigente, proprio tutto il partito si è praticamente liquefatto. Questo è imputabile a Craxi? Personalmente ho delle opinioni, non delle verità e continuamente mi interrogo senza trovare, fino ad oggi, risposte conclusive. Osservo però che in altri paesi, in Germania, ad esempio, ci furono episodi simili, ma i partiti hanno resistito all’urto, non si sono dissolti. Se ripenso a quel periodo, noi eravamo praticamente fermi in un beato immobilismo: nel 1991 a Bari si tenne un congresso inutile: non si rinnovarono neppure gli organi dirigenti ed ebbi chiara l’impressione che noi non avevamo una chiara prospettiva d’avvenire.

Spesso si fanno confronti tra la prima e la seconda Repubblica. Ci può raccontare com’era la vita politica in sezione o in federazione? Era diverso il rapporto tra cittadini e politica rispetto a oggi?
Da assessore del mio comune, a Castelfranco di Sotto (Pisa), avevo contribuito a istituire l’asilo nido, con orario di apertura dalle 8 alle 18. Una cosa davvero importante dal punto di vista sociale per un paese operaio ad alta intensità di manodopera femminile. Nel 1975 sono stato eletto sindaco di Castelfranco, nasce la mia prima figlia e nel giugno ’76 vengo nominato segretario di federazione. I miei compagni di partito forse mi scelsero segretario come parafulmine, essendo allora un giovane trentenne. Periodo non facile, il Psi per la prima volta era sceso sotto il 10%. Ci trovavamo a dover lavorare in un partito che andava letteralmente ricostruito. A Pisa lo avevamo compreso già prima del Midas, grazie alle intuizioni di Giacomo Maccheroni, Oriano Ripoli, Enzo Lupetti ed altri compagni. Cominciammo a lavorare per rinnovare il Psi, cambiare vecchie consuetudini, come, per esempio, non partecipando più, sul territorio, alle giunte dove i nostri voti non erano determinanti. Personalmente ero convinto che ai socialisti non andasse bene la politica dei due forni (alleati con la Dc, al livello nazionale, e col Pci negli enti locali), e così nel 1980 considerai esaurita la mia esperienza e lasciai la guida della federazione provinciale. Al Comitato centrale del gennaio 1980, insieme ad altri due compagni avevo votato contro la risoluzione proposta dal segretario del partito. La mia carriera politica a livello nazionale finisce lì. Accolsi la proposta dei miei compagni di Castelfranco di ricandidarmi al Comune e tornai a fare il sindaco. Non ero perfettamente allineato al segretario, il vero interprete della politica socialista craxiana a livello provinciale è stato Giacomino Granchi, che ancora oggi ricordo con profondo affetto.

Che rapporto c’era tra voi socialisti e il Pci?
Nonostante le numerose giunte che guidavamo insieme i rapporti non sono stati mai facili. Il Pci a Pisa era abituato a gestire le cose in questo modo: decideva di cambiare sindaco e te lo comunicava dopo, a cose fatte. Come fu, ad esempio, nel 1983, quando Luigi Bulleri si dimise da sindaco di Pisa e fu proposto Vinicio Bernardini. Nel 1985, quando rompemmo l’alleanza col Pci, intendevamo imprimere una svolta, un cambiamento politico significativo anche a livello locale. Oriano Ripoli, che divenne sindaco, sapeva che lo sarebbe stato per poco tempo. Nel 1986 infatti la giunta cadde e il Pci dovette accettare Granchi sindaco. Un altro nostro importante obiettivo di crescita politica era di riportare un deputato socialista a Pisa (il collegio comprendeva Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara, ndr). Fu un lavoro di anni che si concluse, positivamente, nel 1987, con l’elezione alla Camera di Maccheroni.

I socialisti pisani hanno sempre mantenuto una linea autonomista?
Sì, a Pisa la proposta politica di Craxi dal 1981 (Congresso di Palermo) era condivisa dalla maggioranza del partito: ed era una libera scelta, nessuno ti obbligava a obbedire. Anche a livello regionale era prevalente la linea autonomista. A guidare il Psi toscano era, in quegli anni, un personaggio di grande spessore come Lelio Lagorio, autonomista doc e primo presidente della giunta di sinistra nella Regione. Le tradizioni pesavano e lo stesso Eugenio Giani, attuale presidente, proviene da quella tradizione politica. Il Pci in Toscana non ha mai avuto la maggioranza assoluta. La tradizione autonomista toscana è sempre stata forte, ma non ha mai escluso rapporti di governo con il Pci sia a livello regionale che locale.

C’è un aneddoto personale, legato a Craxi, che le va di ricordare?
Ero nel Comitato centrale del partito. Quando ci furono le elezioni del 1979 arrivò la proposta di candidatura del professor Silvano Labriola nel nostro collegio. Insieme ai segretari delle altre federazioni del collegio elettorale (Lucca, Massa Carrara e Livorno) chiesi un incontro urgente al segretario. Arrivammo a Roma e Bettino ci ricevette nel suo bunker, nella sede della rivista culturale Mondo Operaio. Lui sapeva già tutto, intendo dire la ragione del nostro viaggio, le nostre rimostranze sul candidato da sostenere. Ci offrì il caffè e subito ci disse con ferma cortesia: “L’ho promesso al professore (Francesco De Martino, ex segretario socialista) e sarà candidato nel vostro collegio”.

Com’era la vita di partito?
Mia moglie mi diceva che non ero normale, e probabilmente aveva ragione. Partivo da casa alle 6.30 del mattino, andavo a lavoro, uscivo e mi recavo in federazione. Rientravo a casa a tarda notte. Ho vissuto così per quattro anni, vedendo mia figlia crescere senza accorgermene. Ripensandoci oggi, stento a capacitarmene. La vita da dirigente provinciale era certamente faticosa, ma ti insegnava a crescere, maturare e ti formava. Il partito era una scuola, si faceva esperienza sul campo, si studiava e si cresceva. La legge proporzionale sicuramente aveva dei difetti, ma anche dei pregi. I partiti come si erano strutturati nel dopoguerra oggi non esistono e probabilmente non esisteranno più. Ma non mi sembra che i risultati della politica siano migliori rispetto ad allora.

Leggi l’intervista a Giacomo Maccheroni

Ringraziamo Paola Viegi per aver organizzato, con L’Arno.it, la tavola rotonda con i socialisti pisani. Nei prossimi giorni pubblicheremo un’altra testimonianza. 

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