Paolo Lazzari

“Vedete, io nel gabbione a Livorno li vincevo tutti, i tornei. Poi un giorno arrivò una squadra più forte e non vinsi più: il calcio è semplice”. Quanto ci mancano le conferenze stampa di Massimiliano Allegri. Non importa essere milanisti, juventini, o cos’altro ancora: basta amare lo sport ed il modo di interpretarlo assecondando una direttrice chiara, nitida: calma e qualità – sempre – che non importa vincere di cento, perché se vi intendete un minimo di ippica, chi è davanti di ‘orto muso è consegnato alla storia come primo e del secondo difficile che ci si ricordi.

Un anno con Allegri da spettatore, diciamolo, è stato lungo. Ora però quelle sue dichiarazioni a tratti ipnotizzanti per la concretezza di un linguaggio seppur metaforico che assurge quasi a liturgia profana, sembrano sul punto di tornare. I litigi con Sacchi e Adani – a più riprese accusato dal tecnico toscano di essere “un teorico che legge libri” – stanno già scampanellando all’ingresso. Destinazione? La Milano nerazzurra: la Beneamata. L’Inter. Le improbabili sliding doors distribuite alla ceca dal destino. Antonio Conte è insofferente, i bagagli già predisposti, un biglietto soltanto da stampare per andarsene. Max invece freme per ricongiungersi al suo Marotta, andando a riformare così quel blocco che, in bianconero, ha mietuto successi. Milan, Juve e Inter: non succede, ma se succede, in quanti possono dire di aver fatto altrettanto in carriera?

Quella di Allegri, livornese viscerale nella dialettica e nella mimica, inizia con la gavetta: ma che ne sa Pirlo dell’Aglianese? Centrocampista dai piedi educati, pensiero lungo e cambi di gioco, punizioni e bolidi da fuori come zaffate profumate destinate a incidere la propria strada sul percorso stabilito dal Dio del calcio, se ce n’è uno. Max vive la provincia e scala le gerarchie, fino ad arrivare a Cagliari, dove comincia a rifulgere di luce propria. Due stagioni come la svolta che scolpiscono l’esistenza. Il Milan lo nota e se lo porta alla Scala del calcio: è scudetto al primo tentativo. L’anno dopo il titolo gli verrà sfilato dalla Juve dopo un forsennato testa a testa. Riavvolgete il nastro della memoria: ricordate lo scetticismo che ammantava il tecnico il giorno della sua presentazione in bianconero?

Eppure l‘irruzione di Massimiliano nella vita di una tifoseria assomiglia a uno di quei viaggi che non vorresti fare mai, ma che poi ti sorprendono fino ad entrarti sottopelle: piangi due volte, all’arrivo e alla partenza. “Vi ricordo – armeggiava con una sfera della Champions durante uno dei suoi show in bianconero – che quando sono arrivato qua c’era la gente che era bianca come questo pallone perché aveva paura a giocare con il Malmoe”. Ecco, se c’è una qualità che deve essere riconosciuta ad Allegri, forse sopra ogni altra, è quella di aver saputo infondere tranquillità e fiducia al gruppo: un talento raro, coniugato ad una capacità di lettura del gioco in cui è altrettanto complesso imbattersi. Di lui Patrice Evra, pupillo di Sir Alex Ferguson a Manchester, ebbe a dire: “Il mister è incredibile, prima delle partite ci diceva cosa sarebbe accaduto, in quali spazi infilarci, quali movimenti fare. Poi iniziavi a giocare e succedeva esattamente quello che lui aveva detto: mi trovavo dentro uno spazio che aveva visto ancor prima che la gara iniziasse“. Ad una Juve tremebonda fuori dalla Serie A, Max ha saputo restituire una dimensione europea: due finali perse, una guerriglia col Bayern, un solo vero flop con l’Ajax. “Con me la Champions è sempre stata un obiettivo”: aveva ragione.

Ora la vita calcistica di Max sembra in procinto di servire un nuovo mazzo di carte. A Milano, sponda Inter, potrebbe spezzare l’incantesimo già stantio del 3-5-2 infilato nella mente di Conte: difesa a quattro, Eriksen sistemato dietro le punte (oggi soffre non poco per il ruolo che occupa), Lukaku e Lautaro davanti. Anche se i moduli, ormai si sa, per lui contano il giusto. Meglio sapere come occupare gli spazi, con calma e qualità, certo. Fuggendo nel gabbione, di quando in quando, per non smarrire la sua dimensione provinciale – quella che lo ha aiutato a districarsi con successo nel calcio europeo – arrivando secondo, magari, ché basta vincere dalla panchina giusta.

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