Nuova puntata del racconto di Guido Martinelli ambientato in un futuro non troppo lontano. Si parla di un misterioso virus. Ma non vi angosciate (per questo basta e avanza la realtà quotidiana). La storia entra sempre più nel vivo. Se vi foste persi le puntate precedenti potete leggerle qui: 1234. Buona lettura!

 

Domenica 9 Marzo 2025

Caro Tario,
stavolta ti chiamo col nome di un vecchio compagno delle medie che restò in classe fino alla primavera del primo anno degnandoci solo di alcuni, frettolosi, sorrisi. Veniva da Tropea e di cognome faceva Tulumeci. Quando sparì, dall’oggi al domani senza spiegazioni, qualcuno tirò fuori l’ipotesi che fosse figlio di qualche detenuto o robe del genere, ma alcuni anni fa, sfogliando un giornale al bar, lo riconobbi, invecchiato, nella foto di un magistrato figlio di magistrati perito in Sicilia a seguito di un attentato mafioso. Per me restò “Tario”, ovvero il ragazzo solitario. E così mi sono sentito in questi ultimi giorni in cui mi sono tenuto alla larga da te, paziente amico di carta. Con intenzione.

Il fortuito incontro con Abdul mi ha rivelato la grande distanza che ormai si è creata tra me e il genere umano. Non sono nemmeno più sicuro di esserlo, un umano: l’essere vivente più sociale della galassia. Ho il cellulare pieno di numeri di altri esseri viventi e qualcuno di questi, ogni tanto, mi chiama di propria sponte, forse per sentirsi vivo, ma questo non impedisce al mio cuore di sentirsi trafitto dal gelo ad onta della primavera incipiente. Queste stanze, poi, in cui si odono solo i miei passi solitari non recano conforto alcuno alle mie pene. Il calore, gioioso e un po’ infantile di Abdul, hanno invece liberato il mio disagio interiore che attendeva solo un pretesto per liberarsi dalle bende con cui lo immobilizzavano i ritmi e i rituali della vita adulta e della cattività. Il modo spontaneo con cui il mio amico straniero mi è venuto incontro mi ha riportato ai tempi del bel tempo andato in cui la pandemia sembrava un mostro sconfitto per sempre. Ai fischi sotto casa del Mengali alle nove estive di mattina per fuggire in Piazza San Silvestro a scalciare la sfera in branchi scomposti; alla cocacola o al gelato all’amarena del barrino davanti al liceo in mezzo a voci sghignazzanti; ai natali intorno all’albero circondato di pacchi colorati con zio Lino che faceva le facce buffe esaltando me e mio cugino Carlo, quello scomparso due anni fa per un banale incidente casalingo, in formato teneri cuccioli indifesi; a mamma plaudente per i miei diciott’anni al Bagno Milena in mezzo a una selva di volti sorridenti di fronte alla torta di profiteroles illuminata dalle candeline.

Insomma, ai frammenti degli anni in cui eravamo in paradiso senza saperlo che quel faccione scuro e fiducioso è riuscito a riesumare dal baule dei sogni infranti. Credo che questo periodo di attesa sospesa porti a simili prodezze: se non puoi andare avanti è ovvio che volti lo sguardo indietro notando, non senza afflizione, le differenze. Sono andato persino a rinvenire in uno scaffale della biblioteca vecchi vinili e cd d’annata ascoltando, a più riprese e per due giorni, i capolavori del grande Lucio Battisti adorato da babbo Simone in modo smisurato. E quando è salita sulla ribalta la canzone del sole sui braccioli del divano sono apparse due o tre belle faccine bistrate di mascara e labbra rosso fuoco.

Questo album di foto ingiallite e intrise di una sottile e inconsueta malinconia in cui mi sono infilato mi avrebbe tolto pure la motivazione per il consueto impegno lavorativo dello smart working se non mi fossi opposto per non rafforzare la leggenda degli operatori comunali refrattari agli obblighi lavorativi. Quindi ho stretto i denti e sono andati avanti stoicamente. Non nascondo di avere avuto persino un briciolo di rimpianto della mia buia stanza di prigionia a Palazzo Gambacorti, della scrivania colma di polvere, foto varie, portapenne, e scartoffie. Lamento persino la mancanza delle barzellette sceme di quella sagoma del Barsotti.

Ora sono passate le venti ma ti comunico, caro amico, che verso le diciassette e venti mi era preso un vero sconforto. Non sono il tipo da forti depressioni ma già ieri sera, mentre la tivu riproponeva un vecchio sketch di Beppe Grillo a Fantastico con Pippo Baudo nello sfondo, mi chiesi il senso della presenza della mia pingue silohuette sopra quel divano d’annata. Poche ore fa ci stavo ripensando concludendo di essere ormai un rudere senza grande valore e senso quando è arrivato in soccorso il quinto cavalleggeri: il cellulare. Era lui, Abdul, cui ho risposto con flebile voce proveniente dall’Ade che non ha colto. Aveva, al contrario, il suo solito timbro brioso e perentorio.

-Ciao, capo Francesco, tutto bene?
-Si sopravvive, Abdul, grazie, qual buon vento ti porta?
-Che dici capo, qui no vento stasera, bella serata, da te vento forte?
Accidenti alle metafore, mi dimentico che per lui sono ostiche.
-No, Abdul, qui tutto ok come da te, lascia stare, sono contento che mi hai cercato, e ti chiedevo il motivo della chiamata.
-Ah, capito capo, ti chiamo per dirti che so altre cose su quella storia di altro giorno di capo pollizia e volevo dire te.

A dire il vero, quei sospetti che Abdul mi aveva confidato con fiducia e generosità li avevo colpevolmente gettati alle ortiche. Perso com’ero dietro i miei fantasmi privati non gli avevo dato più peso, come spesso mi succede quando seguo i miei percorsi egoriferiti. Così, senza convinzione, gli ribatto…

-Ah, “quella” storia? Scoperto qualcosa di nuovo?
-Certo Francesco capo, so più cose e, ripeto, devo dire te stasera.
-Come stasera? C’è il coprifuoco, non puoi girare per la città di giorno figurarsi di notte.
E poi, perché a me? Possibile che uno socievole come lui non abbia altri amici cui confidare le sue congetture?

A proposito di quelli ripenso alla tivu accesa verso le tre, dove gli scagnozzi schierati da Sua Desolazione Super Capo Pulici, simpatico quanto un herpes ai genitali, dopo aver mostrato le consuete, tragiche tabelle dei caduti per colpa del virus nel paese e nel mondo, hanno intimato al popolo bue, sia pur con toni flautati, di continuare a starsene rintanato.
Già, perché il brutto mostro invisibile è cattivo e tratta male i bimbi bravi come noi, e quindi dobbiamo ubbidire a babbo e stare tranquilli al calduccio che tanto fuori, per le strade fredde e buie, c’è l’esercito che vigila. E i bimbi disubbidienti verranno messi in castigo dai signori coi caschi. Insomma, vegliano su di noi non i medici-virologi e il personale sanitario assortito, bensì l’esercito: il moschetto amico perfetto. Solo in quel momento ebbi un soprassalto e riapparvero le parole del mio amico sudanese (o senegalese? Non l’ho mai capito), ma le scacciai appena subentrò la pubblicità. D’altronde, ero già turbato per conto mio, non reggevo altri stimoli.

-Ci sono truppe armate in giro per le strade, Abdul, se ti trovano ti arrestano.
-No problema, amico, Abdul ha permesso firmato da capo pollizia pe portare spesa suo padre. Io furbo, che credi.

Hai capito che lenza il figlio del continente che ha dato origine alla civiltà umana! Insiste, tutto d’un fiato.

-Insomma, amigo mio, posso venire verso ore nove e medio con amica mia a tua casa per raccontare tutto te e tu dai consigli noi?
Riborda: sono lusingato da tanta devozione ma rifletto un attimo sulle sue parole.
-Con chi vieni? Con un’amica? Non ti basta di rischiare di andare a giro da solo e ti porti pure l’accompagnatrice?

-Anche lei lavora casa capo pollizia dove pulisce casa sua perché lei non polliziotta ma pulisciotta (ride… non ci posso credere, ha fatto la battuta, che soggettino è luili!) e anche lei sentito cose strane come me così voglio portare lei casa tua per fare capire te che io dico verità vera, no bugia bugiosa.
Augh, a parte che bastava lui per approfondire la questione quando finirà tutto questo disastro mi dovrei impegnare per insegnargli un po’ di grammatica a quel testone.

-Anche lei, allora, ha il permesso per poter girare liberamente?
-Sì, anche lei. Certo. Capo pollizia dato anche lei permesso per venire pulire casa sua senza essere fermata da soldati. Tanti soldati in strade, troppi. Questo capo della “pollizia” deve essere un po’ sbadato se parla di cose riservate ad alta voce senza badare alla gente presente in casa. L’immagine delle stanze di case percorse da altre gambe oltre le mie dopo ere geologiche mi solletica un bel po’ così acconsento al suo autoinvito: tanto sono autorizzati dalla “pollizia”.

Ora, mentre ti sto scrivendo, siamo arrivati alle quindici oltre le venti, per cui è più igienico se ti mollo, amicuzzo mio, per riassettare un tantinello la tana del vero Tario, lupo solitario senza neppure essere martire della giustizia come il suo silenzioso compagno di scuola, in previsione dell’arrivo dei suoi ospiti. Getto uno sguardo in strada per rilevare l’eventuale passaggio di cingolati o truppe in assetto di guerra, ma scorgo solo un gatto bianco che attraversa pigramente la strada deserta in direzione della casa di Clara, la gattara del quartiere. La prossima volta magari li invito a cena, i due privilegiati, per riscoprire pure l’ebrezza della convivialità. A domani, quando ti racconterò per filo e per segno gli sviluppi della serata.

Tuo Francesco, nonché Togni.
Viva noi.

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