Roberto Riviello

Non lasciatevi ingannare dal manifesto, dove si vedono due donne divise da una porta e la più giovane che sta accarezzando una pistola semiautomatica: “Buonanotte, mamma” non è un thriller, a meno che non vogliate considerare thriller la Medea di Euripide o il Macbeth shakespeariano.

“Buonanotte, Mamma” (‘night, Mother), il testo per il quale Marsha Norman vinse il Premio Pulitzer nel 1983, è una tragedia, anche se venata di umorismo. Una tragedia americana nel solco tracciato da Arthur Miller con “Morte di un commesso viaggiatore” (di cui abbiamo visto recentemente una versione con un magnifico Michele Placido nei panni di Willy Loman); e le tragedie americane, a partire dal romanzo di Theodore Driser e poi dal film diretto da von Sternberg nel 1936 (An american tragedy), si sa, sono tutte tragedie della quotidianità.

È così anche per “Buonanotte, mamma”. Jessie, quarantenne divorziata e infelice, con un figlio descritto come un ladruncolo, perennemente disoccupata e malata di epilessia, vive con la madre Thelma, vedova, in un appartamento che sa di stantio e delabré; in una quotidianità, appunto, che non è illuminata da alcuna prospettiva di futuro o di speranza, ma è scandita da una monotona e soffocante ritualità dove le cose prendono il sopravvento sulle persone e il “food delivering” è un’ossessione ed anche il segno della loro autoreclusione.

Mentre l’anziana Thelma si è assuefatta a questo stile di vita, completamente immersa nei suoi lavori all’uncinetto; Jesse è ormai arrivata alla lucida determinazione di suicidarsi con la pistola del padre; e lo comunica a sua madre, al termine di una giornata grigia e priva di amore, con la tranquillità e la fermezza di chi saluta i familiari prima di un viaggio.

Allora tutta la drammaturgia, abilissima, della Norman consiste nel tessere una trama che, a partire dal “perturbante” annuncio di Jessie – per dirla con Freud -, si sviluppa come su un piano inclinato: in una discesa lenta ma inesorabile nelle profondità dell’anima e al tempo stesso verso una conclusione che Thelma cercherà di impedire con strategie tipicamente materne e un po’ ricattatorie, e che si avvicina sempre di più.

Stefano Baldecchi, attore di teatro e qui al debutto come regista, ricostruisce l’appartamento di Thelma con le caratteristiche e le colorazioni che ricordano gli interni di Almodovar; nel suo caso sapientemente illuminato da Fabio Vignaroli; e così lo rende un po’ meno americano e un po’ più vicino a noi: con tutte quelle pentole e coperchi e mestoli d’acciaio che presto verranno sbattuti in terra da Thelma e resteranno lì sempre tra i piedi delle due donne.

E poi opera sul testo: seguendolo quasi alla lettera in tutta la prima parte, per poi trasformare il dialogo in un doppio monologo nel pasaggio decisamente più emozionante della rappresentazione: quando il momento della verità diventa una sorta di confessione di ciascuna a se stessa, con Thelma e Jessie fisicamente distanti che parlano una alla volta, senza incrociare i loro sguardi e forse senza riuscire a comprendersi fino in fondo; il tutto accompagnato da una efficace colonna sonora che esaspera il senso della solitudine esistenziale.

Simona Gonnelli è una una Thelma praticamente perfetta, capace di modulare la voce e la mimica facciale sia nei momenti di maggiore drammaticità che in quelli sottilmente comici. Marika Masselli, la figlia, si esprime meglio e con intensità nel monologo; mentre durante la prima parte rivela una certa agitazione nei movimenti oltre che nelle battute, che le fa perdere naturalezza e soprattutto non si addice alla calma, quasi stoica, con cui Jessie ha deciso di morire.

Repliche al teatro Excelsior di Reggello fino a domenica 27 marzo.

 

 

 

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