Paolo Lazzari

Può mancarti davvero una cosa che non c’è mai stata? La risposta non contempla indugi: sì. Specialmente se la questione ha a che fare con le distanze. La più incolmabile? Quella tra la vita che speravi e l’esistenza che ti è venuta giù. Eppure, di quando in quando, è possibile fare spallucce di fronte ad una sorte beffarda, pur convivendo con un retro pensiero riluttante a salutare. Devi esserci portato, però. Meglio: ci devi nascere. Devi contenere al tuo interno un patrimonio genetico perennemente oscillante tra il baratro e l’irriverenza, una miscela potenzialmente letale, eppure salvifica. Alcuni la chiamano Ovosodo. è una sensazione per nulla simpatica, ma se la provi certifica il fatto che il sangue pulsa ancora nelle vene. Paolo Virzì la racconta disimpegnandosi con acume, nell’omonimo film del 1997. Ovosodo è anche il quartiere di Livorno epicentro della storia, quello delle maglie bianche e gialle messe su per il palio marinaro.

E a soffermarsi un istante sulla questione, del resto, ne scaturisce un ritratto alquanto fedele. Di chi? Del livornese originale. Piero, il giovane protagonista, rincorre sogni che hanno la consistenza di un panetto di burro fuso con il suo amico Tommaso. Solo che quello sta facendo la rivoluzione con le terga parcheggiate su un mucchio di soldi. Piero no. Così, quando gli animi incendiari del compagno si dissolvono e una scaletta d’aereo è pronto a trascinarlo altrove, negli Usa, Piero rimane lì inerte, trasecolato, interdetto, ferito dove fa più male. Gli sembra, parole sue, di avere ingoiato un uovo sodo col guscio e tutto. Una roba che rimane sospesa lì, a mezza altezza, e non va ne su ne giù. E quel che puoi fare, a quel punto, è prendere le cose esattamente come sono: il protagonista se ne va a lavorare in fabbrica, sposa la sua seconda scelta e conduce una vita regolare. Non è del tutto rassegnato. Non può dirsi proprio sconfitto. Eppure ci sarà sempre qualcosa che gli mancherà e che peserà più di quel che c’è.

Ecco, se esistesse un manifesto programmatico della livornesità, forse la prima riga dovrebbe partire proprio da qui. Da quel senso di inespresso che ti lasciano in eredità quasi tutti i labronici che incontri. Perché se frughi accuratamente dietro a quella muraglia di espressioni gutturali, se cincischi oltre la sguaiatezza eletta a filosofia di vita, potresti inciampare in un pensiero irrisolto. Quello di chi si crogiola in una simpatia inarrivabile, ma resta il toscano più malinconico. Di chi ha scelto di non preoccuparsi eccessivamente di ogni affanno del mondo per succhiarne via il midollo finché si può – e pazienza se il conto si presenterà tutto insieme – ma i pensieri più scuri li comprime tutti dentro. Quello di chi, da sempre, predilige il sole in fronte al disdicevole grigiore di chi cede alla rassegnazione, ma il pensiero fisso di quel salto lì, che non ha mai fatto, lo tormenta senza sosta.

Un fiume di impercettibili sfumature e poco spazio per contenerle tutte. Ogni tanto qualche sbavatura diventa affluente e ti trascina al largo, dove non c’è riparo. Così il livornese, che pure sarebbe capace di imprese inedite, si arena quotidianamente in piccole disfatte: il disagio di certi pertugi cittadini è palpabile. Progettualità e investimenti spesso divengono una chimera. La cultura che potrebbe sospingere la terra di Mascagni e Modigliani resta spesso una fuoriserie in garage.

Eppure Livorno, che nutre i pensieri di sale, è un ingorgo di fuochi che divampano. Qui hanno proliferato in tenera età campioni dello sport. Qui hanno abitato registi, attori, cantanti e artisti di spessore inattaccabile. Sempre su queste coste sorge una delle migliori accademie navali in Italia. Da queste parti l’inventiva strepita ad ogni angolo. Solo che quelle idee, a volte, avrebbero bisogno di ali più robuste. Il livornese lo sa, patisce la cosa, ma fatica a redimersi. Il cambiamento strutturale è un terreno infido. Per il momento tocca barcamenarsi in mezzo, sempre con quel sorriso lì, sospeso a mezz’aria tra l’insidiosa tristezza e l’irrefrenabile voglia di vivere. Una sensazione scomoda come poche. Proprio come un ovosodo che non va né su né giù.

 

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