Pensi alle Giubbe Rosse e subito rimembri le divise vermiglie dei fanti inglesi, i cattivi “marmittoni” del fumetto cult “Il grande Blek”. E che dire dei soldati a cavallo lanciati all’avventura negli immensi boschi innevati del Canada visti in pellicola e materializzatesi coi soldatini di pasta? Aggiungici poi le stupende atmosfere sonore e canore che riecheggiano dal primo album registrato dal vivo di Franco Battiato. E il gioco della memoria è servito. Quante suggestioni. Uno spritz in cui shakerare sapientemente storia, cultura, musica e vite trascorse.

Ma ci sono altre Giubbe Rosse non meno celebri. Memoria e affetto a Firenze sono ancora ben spalancati per loro. Purtroppo il malinconico bandone della realtà è abbassato dal 2018 sulle due vetrine di quelle che in riva d’Arno sono e restano le uniche e vere Giubbe Rosse: il Caffè storico di piazza della Repubblica, fondato nel lontano 1897 dai fratelli Reininghaus, produttori di birra tedeschi. Seguendo la moda viennese del tempo, i camerieri indossavano delle vistose, inconfondibili, giubbe rosse. A dirla tutta, i fiorentini detentori della purezza linguistica italiana facevano “di molta” fatica a pronunciare il legnoso nome straniero dell’elegante birreria.

“Andiamo da quelli delle giubbe rosse”, si diceva, e così in un baleno si capiva e ci si dirigeva proprio là, a due passi dal vecchio ghetto ebraico forse troppo frettolosamente raso al suolo pochi anni prima per risanare il centro pulsante dell’ex capitale d’Italia.

Quanta vita, quanta storia sono passate dalle Giubbe Rosse in versione fiorentina. Fra i suoi numerosi avventori uno sconosciuto e guardingo profugo russo frequentava la seconda sala, quella del circolo degli scacchi. Vladimir Il’ič Ul’janov, si chiamava, ma sarebbe diventato ben più noto come Lenin. Chissà, proprio alle Giubbe Rosse il futuro leader delle Guardie Rosse a presidio del Paese dei Soviet meditava come dare scacco matto allo Zar della Santa Russia.

Più o meno nello stesso torno di tempo, il pittore e scrittore Ardengo Soffici calato da Poggio a Caiano e lo scultore futurista Umberto Boccioni sceso da Milano sempre nei locali delle Giubbe Rosse se le diedero di santa ragione, a suon di bastonate e cazzotti, per motivi di primato, di orgoglio artistico.

Più tardi sorseggiò un buon caffe alle Giubbe Rosse il poeta, futuro premio Nobel, Eugenio Montale. Era, allora, una Firenze in pieno fermento culturale con le sue riviste letterarie passate alla storia della letteratura. Così l’autore di Ossi di seppia ricordava quei fecondi convivi tavolineschi: “C’era prima di tutti il caffè delle Giubbe Rosse, dove ci riunivamo per la rivista Solaria. Alle Giubbe Rosse ci andavo praticamente tutti i giorni. Vittorini ci veniva spesso. È stato un momento molto bello”.

Per la riapertura delle Giubbe Rosse, per far sì che anche i comuni mortali possano finalmente tornarci tutti i giorni, si invoca uno sforzo congiunto di tutte le parti interessate. Ben venga per rinverdire i celebri fasti del caffè-salotto. Un tavolo di confronto, come si dice in sindacalese, da salutare come segnale di rilancio per una città invasa dai tavolini che, causa emergenza sanitaria, hanno forse apportato al look della città di Lorenzo de’ Medici un aspetto un po’ meno… come dire… magnifico.

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Buccia di Spritz / La sostenibile leggerezza dell’esistente tra cronaca, storia e commento – di Maurizio Sessa

 

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