Luca Bocci

In Toscana c’è davvero di tutto, dalle aspre montagne alle zone paludose, dalla megalopoli del Valdarno a territori dove le case si contano sulle dita di una mano. Se poi guardi la mappa, trovi una terra che non potrebbe essere più lontana dall’immagine canonica della Toscana, sdraiata a ridosso del confine col Lazio.

Per molti toscani, il nome di questa terra rimane legato a ricordi atavici di sofferenze, disgrazie, sciagure passati da padre in figlio per generazioni. Non sappiamo bene il perché, ma molti di noi continuano ad usare questo nome per evitare di bestemmiare. Molti altri non la considerano nemmeno parte di questa regione. Per secoli questa terra è rimasta aspra, difficile, malsana, carica di pericoli, assolutamente aliena. Chi era costretto ad andarci per lavoro, non sapeva nemmeno se sarebbe tornato sano a casa. Le cose sono cambiate parecchio, ma la Maremma non è ancora riuscita a scrollarsi di dosso questa pessima reputazione.

Le paludi del passato sono scomparse, le località turistiche del territorio stanno diventando delle vere e proprie potenze, trainate dalle tante bellezze naturali ed artistiche. La Maremma però, per noi toscani, resta sempre “amara”, una terra maledetta da vedere sempre con sospetto. Intendiamoci, questa reputazione non è nata per caso.

Per secoli attraversare le paludi maremmane era un vero e proprio azzardo. Ad ogni angolo poteva nascondersi una banda di briganti, pronta a tutto pur di derubare il malcapitato viaggiatore. Alcuni di questi briganti erano così efferati da essersi guadagnati un posto d’onore nell’immaginario collettivo. Nessuno però è mai riuscito a scalzare Domenico Tiburzi, detto Domenichino, dal trono del criminale più famoso della Maremma. Per sconfiggere la sua banda, il neonato governo nazionale fu costretto ad inviare migliaia di uomini in una caccia all’uomo che durò per anni. ASCOLTA LA STORIA

Cosa rendeva Domenichino così pericoloso? Il fatto che molti maremmani facevano il tifo per lui e lo proteggevano in ogni modo. Certo, era un poco di buono, ma li proteggeva dai soprusi dei latifondisti e dalle malefatte degli altri criminali. Domenichino, insomma, era considerato una specie di benefattore. Ad un secolo dalla sua morte, molti maremmani possono ancora raccontare storie di come il brigante avesse aiutato la loro famiglia. Questa è la storia del Robin Hood della Maremma.

Da che mondo è mondo, attraversare le paludi della Maremma non è mai stata una passeggiata di salute. Se non ti beccavi la malaria, c’era sempre una banda di briganti pronta a rapinarti dietro l’angolo. La situazione era ben conosciuta, con una soluzione semplice: evitare la Maremma come la peste. D’altro canto, perché mai il governo del Granducato avrebbe dovuto preoccuparsi di quel che succedeva in quella terra povera, malsana e poco abitata? Per secoli i briganti potevano fare più o meno il comodo loro. Sapevano bene chi colpire e chi lasciar passare.

Le cose cambiarono, parecchio, con l’unificazione. Il fragile sistema di controllo locale crollò nel giro di pochi anni, alimentato dal discontento di ampie fasce della popolazione. Le piccole bande di briganti crebbero anno dopo anno, diventando sempre più aggressive. Con il passare del tempo, iniziarono a sfidare apertamente la polizia, imponendo la loro legge. La banda più famosa fu quella guidata da Domenichino e dal suo secondo Luciano Fioravanti. Per trent’anni fecero il bello e cattivo tempo nella zona di Capalbio, prima di essere finalmente sconfitti alla fine dell’Ottocento, dopo aver imbarazzato non poco il governo di Roma.

Le ragioni dietro a questo fenomeno sono molteplici. Prima di tutto, i poveri facevano il tifo per loro. Se le autorità erano viste come lontane, straniere, ostili, i briganti li conoscevano da una vita. Certo, erano criminali, ma facevano di tutto per aiutarli. Avevi un problema? Un vicino ti aveva rubato qualcosa? Aggredito tuo figlio? Soldi per avvocati e tribunali li avevano solo i ricchi. Molto più semplice chiedere aiuto a Domenichino, che avrebbe risolto tutto in maniera definitiva. In cambio non chiedeva soldi, bastava nasconderlo per qualche tempo quando la polizia era sulle sue tracce. La seconda ragione è forse più sorprendente. I proprietari terrieri non consideravano i briganti un vero pericolo. Certo, Domenichino voleva soldi per lasciarli in pace, ma erano soldi ben spesi. Pagarlo voleva dire garantirsi non solo la tranquillità, ma anche la protezione dagli altri criminali della zona. Alla fine, molti erano ben lieti di pagare, anche solo per evitare di vedere i propri raccolti andare in fiamme dalla sera alla mattina.

La terza ragione è comune a tutte le zone dove il brigantaggio prese piede: il territorio. Solo chi era nato da quelle parti sapeva muoversi tra le foreste e le paludi. Bastava poco per svanire nel nulla e lasciare la polizia a brancolare nel buio. Alla lunga, la capacità dei briganti di prendere in giro le autorità li rese delle vere e proprie celebrità. Il mito dell’invincibilità di Domenichino cresceva ogni volta che i carabinieri erano costretti a tornare in caserma con le pive nel sacco. A renderlo però diverso e molto più pericoloso di altri briganti fu però il fatto che Tiburzi sapeva bene come ingraziarsi il popolo. La sua banda non attaccava mai i poveri contadini, ma solo figure legate al poco amato governo nazionale o qualche rappresentante dei latifondisti particolarmente odiato, guardiani, fattori, gente del genere. Aiutare i contadini, insomma, era il modo migliore per garantirsi la loro protezione – e con quella, la polizia non avrebbe potuto far nulla contro di lui.

Ma chi era davvero Domenichino? La sua storia non è molto diversa da quella di tanti altri criminali dell’epoca. Domenico Tiburzi era nato nel 1836 in un villaggio vicino al confine col Lazio e si è incamminato ben presto sulla strada del malaffare. Dopo i primi furti da giovane, già a sedici anni si diede alla macchia per sfuggire ad un mandato di cattura della polizia. Quando fu catturato tre anni dopo, il processo per rapina finì in un nulla di fatto. Anno dopo anno la sua reputazione crebbe, tanto da guadagnarsi il famoso soprannome. Quando a 27 anni fu di nuovo processato dopo un’aggressione, la vittima aveva così tanta paura da rifiutarsi di testimoniare. Domenichino se la cavò un’altra volta.

Le cose cambiarono nel 1867, quando passò dalle rapine all’omicidio. La sua prima vittima fu Angelo Bono, guardiano di una grande fattoria che lo beccò mentre coglieva qualche spiga di grano. Quando provò a multarlo, Tiburzi lo freddò senza pensarci due volte, svanendo nel nulla e riuscendo a sfuggire alla polizia per due anni. Alla fine fu catturato e stavolta non fu in grado di impaurire i testimoni, finendo in prigione. Gli anni in gattabuia non però furono sprecati, ma divennero la chiave del futuro successo di Domenichino. Dietro le sbarre riuscì a formare il nucleo della sua futura banda, tanto da riuscire ad organizzare un’evasione e darsi di nuovo alla macchia. Poco alla volta, altri criminali si unirono alla banda, attratti dalla reputazione di Tiburzi e dal fatto che fosse benvoluto dalla popolazione. La sua banda non disdegnava certo la violenza, specialmente nei confronti dei traditori. Nel 1883 un boscaiolo fu ingolosito dalla taglia ed indicò ai carabinieri il rifugio della banda. Domenichino riuscì a fuggire, ma non poteva lasciar passare questo tradimento impunito. Il boscaiolo si trovò di fronte proprio Tiburzi che prima gli sparò e poi lo fece a pezzi col suo coltello. Il prezzo per il tradimento era sempre la morte. Col tempo, Domenichino iniziò a dispensare la sua particolare forma di giustizia. Nel 1888, quando suo nipote gli fece sapere che un vicino gli aveva rubato un maiale, Tiburzi risolse la questione ammazzandolo. La striscia di sangue si allungò, ma in gran parte dei casi erano regolamenti di conti interni alla banda. Mettevi in dubbio la sua leadership? Morto. Parlavi con la polizia? Morto. Rubavi qualcosa spacciandosi per lui? Morto. La soluzione era sempre la stessa. Domenichino divenne ossessionato dalla sua immagine pubblica, ben conscio che la sua reputazione di “brigante del popolo” era l’unica cosa che gli consentiva di sfuggire alle attenzioni delle autorità.

Alla fine, come succede a molti altri criminali, Domenichino iniziò a credere alla sua stessa leggenda e fece il passo più lungo della gamba. Ad un certo punto, la banda Tiburzi iniziò a chiedere il pizzo ai grandi latifondisti. Se non volevano che i loro raccolti o le loro case andassero a fuoco, dovevano pagare. I soldi, però, non finivano nelle tasche del brigante, ma venivano distribuiti da lui ai poveri. Le autorità potevano tollerare un brigante particolarmente efferato, ma non certo un vero Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Nel 1893 la situazione diventò così seria da giungere alle orecchie del Primo Ministro Giovanni Giolitti, che ordinò una vera e propria caccia all’uomo. Nonostante fossero impegnati molti carabinieri, Domenichino riuscì a svanire di nuovo nel nulla. Gli anni passati a corteggiare gli abitanti della zona diedero i loro frutti. I contadini si rifiutarono di collaborare con le autorità e tradire il loro beniamino. Invece della facile vittoria che si era immaginato, Giolitti passò da una figuraccia all’altra. Gli arresti dei contadini, dei pastori che avevano aiutato Domenichino non produsse alcun risultato. Mostrare la faccia truce dello stato non fece altro che rinsaldare il legame tra il brigante ed il suo popolo. La situazione rischiava davvero di sfuggire di mano. Per evitare una ribellione aperta, il governo si decise a rivolgersi ad un vero e proprio esperto della lotta ai briganti, Michele Giacheri, un capitano dei Carabinieri che aveva dimostrato le sue capacità tra i boschi dell’Aspromonte. Giacheri non si fece prendere la mano dall’emergenza, passando tre mesi a studiare le prove, tracciare una mappa delle relazioni del brigante e mettendo a punto una strategia organica. Questo approccio metodico non era mai stato provato prima di allora. Il Robin Hood della Maremma aveva trovato il suo Sceriffo di Nottingham.

Come la sua intera vita, anche la fine di Domenichino è poco chiara, con molti che mettono in dubbio la storia raccontata dalle autorità. La narrativa ufficiale è fin troppo semplice. Il 23 ottobre 1896, Domenico Tiburzi e Luciano Fioravanti si presentarono alla porta di una fattoria vicino Capalbio, cercando rifugio dal temporale. Il padrone di casa li ospitò come al solito ma, invece di tenere la bocca chiusa, riuscì ad informare i carabinieri, che nel corso della notte circondarono la casa. Domenichino provò a fuggire, ma fu colpito due volte ed ucciso. Il suo secondo riuscì a darsi alla macchia e provò a tenere viva la banda Tiburzi. Fioravanti, però, non aveva lo stesso carisma di Domenichino e fu ucciso tre anni dopo da un membro della banda. Evidentemente incassare la taglia sulla sua testa era preferibile ad una vita passata costantemente in fuga. Anche dopo la morte, Domenichino continuò a causare problemi alle autorità. Il parroco di Capalbio si rifiutò di sotterrare il brigante nel cimitero, scatenando le proteste della popolazione.

Alla fine, per evitare nuovi tumulti, furono costretti ad una soluzione di compromesso. La tomba di Domenico Tiburzi fu quindi scavata attraverso l’entrata del cimitero. La parte bassa del corpo era su terra consacrata, mentre il torso e la testa, dove si pensava che risiedesse l’anima, rimasero fuori. Il Robin Hood di Maremma era passato a miglior vita, ma la sua leggenda era appena iniziata. Col passare degli anni le storie raccontate dai maremmani divennero sempre più inverosimili, tanto da trasformare Domenichino in una figura quasi mitologica. Nonostante sia passato oltre un secolo, però, è ancora possibile trovare qualche testimone. Nel 1996 una giornalista locale, Carla Vannetti, intervistò uno degli ultimi ad aver vissuto le scorribande del brigante. La storia che racconta è impossibile da verificare, ma è sicuramente più interessante della narrativa ufficiale e fornisce uno spaccato sulla personalità di questo “brigante del popolo”.

Il padre del testimone incontrò Domenichino nel 1891, quando aveva solo 15 anni. Lui e Fioravanti si presentarono alla loro porta il giorno di Pasqua, dopo 10 giorni passati a sfuggire alle attenzioni delle autorità. I Carabinieri si presentarono proprio mentre si stavano preparando per il pranzo di festa ma i briganti riuscirono a fuggire con uno stratagemma. Dopo che i carabinieri se ne andarono, la famiglia continuò a sfamare e curare i due fuggitivi per ben sei settimane. Una volta calmate le acque, Domenichino li ricompensò e tornò alla sua banda, tornando una volta ogni tanto a fargli visita. Qualche mese dopo, il giovane contrasse il tifo e, dopo due mesi in sanatorio, fu rimandato a casa visto che i medici non potevano fare più nulla per lui. Quando Domenichino bussò di nuovo alla sua porta, andò su tutte le furie rendendosi conto delle condizioni del ragazzo. Avrebbero dovuto chiamarlo prima – lui si prendeva sempre cura dei suoi amici. Senza perdere un minuto, si mise in contatto con il fattore di una tenuta vicina che inviò una carrozza.

Tiburzi disse al padre di portare il figlio ad una farmacia di un paese vicino e mostrare al farmacista un pettine ed uno specchietto rotondo. Avrebbe risolto tutto. Il farmacista chiamò una persona che viveva sopra al negozio, un tizio alto con un cappello a falde larghe che usciva solo di notte. Il “professore” non era di quelle parti e probabilmente era ricercato dalle autorità. Dopo aver visitato il giovane, il “professore” provò a dargli da mangiare della pasta, carne e vino. Il ragazzo non resse e svenì, spaventando a morte i genitori. Il professore si fece una grassa risata. Sperava proprio in una reazione del genere. Dopo 12 giorni, i genitori tornarono e trovarono il proprio figlio in ottime condizioni. Il padre cercò di ricompensare il farmacista ma lui non volle un centesimo. Lui e Tiburzi erano come fratelli, si davano una mano. Se il brigante avesse saputo che si era fatto pagare, si sarebbe sicuramente vendicato. Avrebbe vissuto fino a 89 anni, sempre grato nei confronti del brigante che gli aveva salvato la vita.

A quanto pare, il ragazzo sarebbe stato un testimone oculare degli ultimi giorni di vita del Robin Hood della Maremma. Tiburzi e Fioravanti si presentarono alla loro porta la mattina, quando si resero conto che la polizia locale era sulle loro tracce. A quanto pare avevano un accordo con i poliziotti: normalmente li lasciavano fare ma ogni tanto i loro superiori li costringevano a cercarli sul serio. Avevano concordato un segnale: se avevano ricevuto l’ordine, avrebbero tenuto il sottogola del berretto allacciato. Tiburzi si spostò in un altro casolare ma fece sapere al padre che i suoi figli erano invitati ad una festa. A vent’anni difficile dire di no ad una festa, anche se ad organizzarla è un famoso criminale. Il party fu memorabile: montagne di cibo e fiumi di vino, che però non riuscirono a saziare Domenichino, il cui appetito era a quanto pare leggendario. Una volta finito il vino, il brigante perse la pazienza e mandò due giovani in paese a comprare altro vino. I ragazzi erano abbastanza ubriachi e fecero parecchia confusione in paese. Questo fu abbastanza per far intervenire le forze dell’ordine, che mangiarono subito la foglia e circondarono il casale.

I carabinieri sapevano che, una volta in trappola, Domenichino avrebbe venduto cara la pelle, quindi presero uno spaventapasseri e gli misero in testa l’elmetto e una lanterna. Quando i cani si misero ad abbaiare, Tiburzi uscì iniziando a sparare. I Carabinieri lo stavano aspettando e lo colpirono ad una gamba. Fioravanti provò a convincerlo a scappare con lui ma Domenichino sapeva che sarebbero stati entrambi catturati. “Sei giovane. Ho vissuto abbastanza alla macchia. Scappa da solo”, disse. I Carabinieri si resero conto che c’erano diversi civili nella casa e intimarono al brigante di arrendersi. Tiburzi, che era riuscito a trascinarsi in casa nonostante la ferita, si mise a sedere su una sedia e rispose ai Carabinieri. “Mi avrete, certo, ma non vivo. Non passerò i miei ultimi anni in prigione. Lasciate andare questi ragazzi. Sono innocenti, avevano solo paura”. Il capitano non voleva rischiare di perdere uno dei suoi uomini ed acconsentì alle richieste del brigante. Una volta usciti i ragazzi, Tiburzi disse “Mi arrendo, ma avrete solo il mio cadavere”. Puntò la pistola alla gola e sparò un colpo. Storia vera, inventata? Chi può dirlo. L’autopsia ufficiale parla di un colpo alla nuca ma secondo il padre del testimone sarebbe stato il foro d’uscita.

Nel rapporto si legge che il cappello a falde larghe del brigante aveva un foro, cosa che si spiegherebbe solo con un proiettile che viaggia dal basso verso l’alto, visto che attorno alla casa non c’erano alberi abbastanza alti. Possibile che si tratti di una coincidenza? Certo, ma questa versione è certo più credibile di quella ufficiale. Per anni i contadini della zona avevano fatto di tutto per proteggere il brigante, senza mai tradire la sua fiducia. Cosa sarebbe cambiato per convincerli al tradimento? Soprattutto, cosa avrebbe impedito alla banda di vendicarsi per la morte del proprio capo? Avevano ucciso in passato per molto meno. La cosa puzza – e parecchio.

La Maremma perse il suo “brigante del popolo” ed aggiunse una leggenda alla propria collezione. Una cosa è certa: questa è proprio una terra strana. Se sia o meno Toscana, lo lascio decidere a voi.

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Foto: invacanzaallargentario.it

 

 

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