Paolo Lazzari

Su quei banchi di scuola ruvidi i conti a volte non tornano mica e la testa finisce sempre altrove. Lo sguardo perennemente allungato oltre la finestra, Roberto rimugina ogni giorno sul futuro, procedendo per segmenti. Le sicurezze non impregnano certo pensieri adolescenziali, ma lui almeno pensa di sapere quel che non è e non sarà: nella vita non vuole certo fare il ragioniere. A Castiglion Fiorentino, negli anni Settanta, l’esistenza è abitata da ritmi cadenzati e rassicuranti: zero pretese, certo, ma almeno non ti devi sbattere in cerca di fortuna se apprezzi la genuinità avvolgente della provincia italiana. Solo che Roberto non è che non la consideri: semplicemente, ha in testa uno sviluppo un po’ più articolato per la sua personalissima trama.

 

La storia, si sa, è spesso una congerie di striature dai tratti indecifrabili. A volte non capisci perché qualcosa deve succedere proprio a te: fatalmente, va così. Devi tentare di modellare a tuo favore quel che viene, consapevole che comunque nessuno ti rimborserà. La porta scorrevole di Roberto Benigni, quella che imprime un’accelerata ad una carriera che poi diverrà radiosa, è infilata in un pertugio del tempo già vecchio di quarantasei anni. Già perché – almeno per chi è nato prima dei duemila, immaginare che oggi lui sia giunto ad un’incollatura dai settant’anni – appare davvero surreale. Il tempo, del resto, sa elargire e borseggiare a piacimento: l’importante è quel che infili durante il viaggio. Ad ogni modo, è il 1975, Benigni si imbatte in un maestro del cinema italiano come Giuseppe Bertolucci. Regista e sceneggiatore acuto, intravede nel ragazzo zaffate di talento che hanno soltanto bisogno di essere incanalate nella giusta direzione. Così Roberto può mettersi alla prova davvero, prima nelle vesti di conduttore del programma satirico “Onda Libera“, quindi al cinema, con la pellicola “Berlinguer ti voglio bene“.

Nel frattempo la sua fama di comico vive un’ascesa irrefrenabile. Certo, in tutto questo, il vecchio adagio “aiuta le cose a succedere” non conosce data di scadenza. Benigni ci mette molto del suo, senz’altro in modo naturale, ma comunque lo fa. Come quando – adesso siamo premuti dentro ad un comizio del PCI nel 1983 – smussa la marmorea compostezza di Berlinguer prendendolo in braccio, procurando centinaia di sguardi trasecolati. L’incipit di una carriera radiosa è appena stato scandito: nei geni di Roberto erompe la creatività ed il guizzo che da sempre sono irriverente marchio di fabbrica dei toscani e pazienza per la ragioneria. Prima conduce il Festival di Sanremo assieme a Claudio Cecchetto e Olimpia Carlisi (1980), quindi conquista le piazze del Belpaese con lo spettacolo itinerante “Tuttobenigni“. Roberto è già un ordigno complesso da maneggiare, perché conosce il modo giusto per far deflagrare le risate del pubblico armando di critica sociale i suoi monologhi. Nel frattempo, come sempre inatteso e prolifico, incombe l’amore: sul set di “Tu mi turbi“, il suo esordio da regista, conosce quella che diverrà la compagna di una vita, Nicoletta Braschi. “Non ci resta che piangere“, girato insieme all’amico Massimo Troisi, resta invece scolpito nella storia delle grandi pellicole italiane e sbanca il botteghino.

La seconda metà degli anni Ottanta coincide poi con il successo negli Usa: qui recita in ben quattro film, tra cui “Il figlio della pantera rosa”. Nei primi anni Novanta la denuncia sociale di Benigni, sempre filtrata da un linguaggio comico dal tono profondo, si acutizza. In questo florido intermezzo Roberto sforna tre dei suoi maggiori successi, come “Il piccolo diavolo“, “Johnny Stecchino” e “Il mostro“, dimostrando la volontà di mettere la sua arte al servizio di tematiche squassanti come la lotta alla mafia o i macabri delitti del Mostro di Firenze. La consacrazione internazionale arriva tuttavia nel 1997, con il capolavoro “La vita è bella“: qui Benigni riesce ad esprimere tutta la sua dirompente peculiarità, raccontando il dramma dell’olocausto anche attraverso un’ironia di fondo che si cuce alla tragedia. Il film riceve una caterva di riconoscimenti internazionali, tra cui tre premi Oscar. Abbastanza per continuare a crederci, anche se i successivi “Pinocchio” e “La tigre e la neve”, che segnano l’ingresso negli anni Duemila, tradiscono le aspettative. Benigni decide quindi di prendersi una pausa dal cinema, ma non dalla sua arte: arrivato a questo punto della carriera sceglie di dedicarsi alla lettura dei canti della Divina Commedia, cogliendo un successo fragoroso. Per il ritorno alla recitazione bisognerà attendere che il telefono trilli di nuovo, nel 2012: dall’altro capo della cornetta c’è Woody Allen, che lo inserisce nel cast di “To Rome with love”. Negli anni successivi Roberto si dedica alla creazione di nuovi format televisivi e itineranti, senza smarrire la vena per la sceneggiatura: in molti giurerebbero che il prossimo film è proprio dietro l’angolo.

Oggi, a quasi settant’anni, Roberto Benigni può accomodarsi nello sparuto club di quelli che possono guardarsi alle spalle sganciando un sorriso per quel che hanno saputo fare. Con la promessa di dare ancora molto al suo Paese. Che i conti, alla fine, sono tornati davvero.

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