Paolo Lazzari

La casa di via dell’Inferno è sempre un buco per nulla avido di storie. Eppure quasi tutto il tempo è stato vissuto fuori da quelle mura senza pretese, in mezzo alla strada, tra la gente, meglio – molto meglio, s’intende – se di fianco alle donne. Perché il nostro, sia chiaro, a casa si rompeva le palle. Allora via, a passeggiare alle Cascine a petto nudo, con quel torace ampio e l’espressione perennemente beffarda, l’aria sempre sospesa a metà tra bestemmia e esultanza. Era malinconico ma sapeva prendere la vita tra quelle sue dita grosse e sgraziate, rigirarsela per farsela tornare in qualche modo e farcisi una risata sguaiata, grassa, succosa.

Carlo Monni era così: probabilmente il più toscano tra i toscani, per attitudine fisica e morale. Gli piaceva interpretare la vita cospargendola di movenze ineffabili: lo sapevi, com’era, eppure non capivi mai cosa aspettarti esattamente, da un tipo come lui. Come quando, un giorno, telefona dalla stazione di Forte dei Marmi a Elisabetta Salvatori, appena conosciuta: “O bellezza, ma come ci s’arriva a casa tua?”. Lui infatti la macchina non sapeva neanche cosa fosse. Si muoveva con i mezzi pubblici, discorso chiuso. Salvatori, si diceva, lo aveva conosciuto pochi giorni prima ad uno spettacolo in cui era lei sul palco e non aveva la minima idea di chi fosse. Il ricordo di quel primo impatto da parte della donna che poi condivise col Monni gli ultimi anni, è forse la rappresentazione più pratica di come il poeta si proponeva. “Pensavo fosse il macellaio del paese, poi mi si avvicinò a fine spettacolo, a Radicondoli, e iniziò a ciarlarmi di teatro. Ricordo che mentre parlava mi chiedevo come facesse un macellaio a saperne così tanto, di quel mondo lì”.
Il fatto era che Carlo i fronzoli non li contemplava proprio. Diretto, irridente, dissacrante, proprio come i toscani autentici. “Non ci resta che piangere“, spalla a spalla con Benigni e Troisi, resta la prova più scolpita nella memoria nazional popolare, ma il suo – in fondo – è stato un profluvio artistico che ha golosamente accarezzato, con i suoi bordi sconnessi, l’esistenza di almeno un paio di generazioni.

Carlo Monni ed Elisabetta Salvadori

Una donna fissa, comunque, non l’aveva mai voluta. “Non mi sono ancora sposato, per fortuna. Così posso continuare ad andare a passera”, cicatrizzava la questione. Le grandi passioni erano quelle lì. Il teatro, le femmine, il buon cibo ed un vino corposo da trangugiare, una serata tra amici che diventa notte lunga da succhiare fino al midollo, perché alla fine le cose che contano davvero sono una manciata e poco più, se ci pensi bene. Monni ti insegnava che basta poco per essere felici: una merenduccia con gli amici, quattro puttanate messe in croce, una passeggiata infinita sul lungomare del Forte. Se ci sbattevi contro, a quel petto villoso e a quel sorriso largo che si beveva tutto, magari ti raccontava una storiella che gli stava particolarmente a cuore. “C’era questo Remo Cambi – ti avrebbe incalzato – che l’era un ciabattino anarchico e gli bastava di fare tre scarpe a settimana, mica di più”. Eccolo, il manifesto esistenziale del Monni. Per lui le cose andavano semplicemente in un certo modo e non c’era molto altro da aggiungere, più che altro bisognava fare, ungersi, divorare l’esistenza a forza di compulsive zaffate di ingordigia. Perché alcuni – te lo diceva schietto nel suo monologo in Berlinguer ti voglio bene – nascono bruchi e restano bruchi, mica mettono le ali, e forse va anche bene così. Non gli piacevano le persone accomodanti, al Monni. Non ci si sentiva a suo agio, con quelli che cercano di smussare le ruvidità della vita scegliendo il compromesso come misura dei propri passi. Meglio inciampare e smusarsi, casomai, ma perdersi e smettere di sentirsi, quello mai.

Monni e Benigni in “Berlinguer ti voglio bene”

Dante lo faceva fibrillare, mentre Pirandello era una bastonata nei denti: “Farlo per vedere icché?”, ti avrebbe chiesto se ti ci appollaiavi accanto, al tavolo di un qualunque bar sport. Proprio perché era toscano vero, non ti usava la cortesia di una carta bollata per avvisarti che, sanguigno e terragno, aveva bisogno di mandarti a fare in culo. Questa irriverenza gli pompava nelle vene da sempre, fino ad erompere tra i pori della pelle. Allora sudava, si riavviava i capelli scapigliati per natura e ti rabboccava il bicchiere, implorandoti di non prendertela più di tanto che tanto la vita è un soffio. La sua, interrotta bruscamente alla soglia dei settant’anni, l’ha navigata in ogni possibile increspatura, senza pretendere nulla, eppure donando tanto. Come il fatto che rispolverava quotidianamente il toscano arcaico, declamando il volgare con la disinvoltura di chi ci sguazza dentro da sempre. “Prendo il tramvia e vado a desinare”, ti infilzava.

Possente, pittoresco, irredimibile, si crogiolava in una città lorda di arte, scansando i riflettori: “Benigni? L’ho perso di vista ora che lo chiamano in Parlamento. Io penso che si diverta molto meno adesso. Perché ci sono tanti geni a Firenze? Boh, credo che sia per la sottilità dell’aria”.

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