Paolo Lazzari

A Firenze il tempo se ne infischia dei dogmi e viaggia seguendo logiche tutte sue. I secondi sono scanditi dal ventre pulsante di una città radiosa, fabbrica prodigale di arte e storia ad ogni angolo. Per chi arriva da fuori, di certo, esistono alcune tappe imprescindibili: una di queste è senz’altro Ponte Vecchio, simbolo che attraversa l’Arno nel suo punto più stretto elargendo scorci che ingolfano il respiro all’altezza della gola. Oggi appare quasi inverosimile, eppure tutto questo – le foto, gli abbracci, il tintinnare dei gioielli – non potrebbe essere vissuto e raccontato oggi, se non fosse stato per il carisma di un uomo che si oppose strenuamente ai suoi connazionali.

Se provate a infilare un indice intorno al nastro e riavvolgete di un paio di giri, potete contemplare la scena. Gerhard Wolf ha le mani giunte dietro alla schiena, la testa che è un un groviglio di pensieri, mentre soppesa il da farsi. In realtà, dentro di sé una decisione l’ha già presa. Del resto, se sei il console tedesco e Firenze ti ha adottato, è sicuramente il caso di mostrare gratitudine provando a contenere i danni. La situazione certo assume contorni drammatici: ti trovi nel bel mezzo della seconda guerra mondiale e i tuoi connazionali, in ritirata, vogliono far saltare in aria i cinque ponti medievali sull’Arno per guadagnare ossigeno. Un piano quasi sacrilego che si consumerà veramente nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1944, quando a finire sbriciolato sarà anche l’antico Ponte Santa Trinità.

Wolf ha lavorato sodo, affiancato dal cardinale Elia Dalla Costa, per persuadere il comando tedesco a rispettare senza indugi la dichiarazione di “Firenze città aperta”, cruciale per salvaguardare il suo patrimonio storico – artistico dalla distruzione. Speranze spesse come il burro, se si considera che il 29 luglio i tedeschi avevano affisso sui muri un’ordinanza che intimava agli abitanti di sgombrare una vasta area intorno all’Arno in vista di attacchi nemici ai ponti. Ai fiorentini vennero propinate rassicurazioni mendaci, incentrate sul fatto che doveva trattarsi soltanto di una misura precauzionale per tutelare la popolazione civile. Nulla di più falso: tra le 22 del 3 agosto 1944 e le 5 del giorno successivo, una caterva di esplosioni distrusse i ponti cittadini, una ventina di palazzi, una dozzina di torri e decine di case. Circa 150mila persone rimasero senza un tetto e Firenze attraversò uno dei momenti più tetri della sua lunga storia.

Eppure, splendente e orgoglioso, Ponte Vecchio riuscì ad uscirne indenne. Wolf riuscì infatti ad opporsi alla sua distruzione, così come a quella del Corridoio Vasariano, facendo leva sul fascino che questi due monumenti avevano esercitato su Adolf Hitler nel 1938, durante la sua visita a Firenze. In quella circostanza, accompagnato da Mussolini e dagli altri gerarchi fascisti, aveva potuto ammirare la città proprio dal Corridoio e ne era rimasto incantato. Sei anni più tardi, tuttavia, questo svelto innamoramento non sarebbe bastato ad evitare le deflagrazioni. Ancor più decisiva, infatti, fu l’enorme insistenza di Wolf, che sminuì in ogni modo l’importanza strategica del Ponte. Console a Firenze dal 1940 al 1944, scelse a più riprese di disobbedire agli ordini per seguire la propria coscienza, mettendo in salvo un numero inestimabile di opere d’arte, i grandi monumenti citati e, certo non meno importante, decine di vite umane. Il console rischiò la vita in prima persona per salvare i partigiani e la popolazione civile, creando salvacondotti essenziali.

La salvezza di Ponte Vecchio, peraltro, coincise con quella della città: Wolf sfruttò al massimo le sue abilità diplomatiche per far deglutire ai suoi connazionali una gigantesca bugia: nei giorni immediatamente successivi al bombardamento, infatti, il corridoio sopraelevato rappresentò l’unico modo per attraversare l’Arno, diventando canale privilegiato per gli alleati che raggiunsero il centro della città rifornendolo di cibo e armi.

Oggi, sul muro perimetrale della terrazza est, è possibile scorgere una targa in suo onore, riconoscimento doveroso per l’uomo che salvò la città con il suo coraggio.

Foto: Wikipedia

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