Paolo Lazzari

A volte ritornano. Irriverenti, come solo chi è nato in questa regione sa essere. A tratti strafottenti, forse. Alcuni sono maniaci del controllo, mentre altri prediligono una dialettica magniloquente per stordire la stampa. Altri ancora sanno sfoderare metafore ippiche che ti stendono a colpo sicuro. Dopo un letargo forzato, un’autentica flotta di allenatori toscani è pronta a riappropriarsi di un sentimento familiare come un pallone che rotola docile tra i piedi. E, c’è da giurarci, le idee saranno tutt’altro che appannate.

Partiamo da quelli che sono scesi per primi dalla giostra: Luciano Spalletti e Max Allegri. Il primo è sempre stato tanto pragmatico negli obiettivi quanto tracimante nelle conferenze stampa pre e post gara. Non è un caso, del resto, se una delle immagini più nitide stagliate ancora in fondo agli occhi di molti è il celebre sfogo dopo quel Fiorentina-Inter: “È petto netto, è petto netto, non ci sono interpretazioni”. Un risultatista, Luciano, che rappresenta il viatico più rapido per arrivare lì dove De Laurentiis ha fissato l’asticella: il Napoli qualificato in Champions. Poco importano i moduli, quel che conta è avere ben fissati in testa alcuni concetti imprescindibili, probabilmente condensabili in un’altra celebre espressione, coda dell’ennesimo, verboso profluvio sintattico: “Uomini forti, destini forti. Uomini deboli, destini deboli”. Spalletti è un cavallo di razza: idee, tattica, carisma e quel modo di dire le cose esattamente come stanno, dribblando i fronzoli, che è così tipicamente toscano. In questi lunghi mesi ha contemplato le sue vigne e nutrito oche fameliche: ora è tornato in sella alle pendici del Vesuvio e disarcionarlo sarà impresa ardua.

E se si allude ai cavalli, di certo, è semplicemente impossibile non soffermarsi su una delle conferenze stampa più iconiche di sempre. Quel “sei intenditore di ippica?” pronunciato da Massimiliano Allegri resta uno zaffiro incastonato in profondità nella memoria collettiva e continua ad alimentare sorrisi. Il Max pratico e non teorico, quello delle liti con Lele Adani, quello del “gabbione” a Livorno che resta ancorato lì come metafora dantesca, quasi fosse un girone infernale dal quale non puoi mica uscire indenne se non confidi nel credo mistico di acciughina: calma e qualità. Il ritorno alla Juve coincide con la cacciata di Paratici, con il quale – due anni fa – si erano affastellate divergenze di mercato. Adesso Max, molti capelli in meno e tanta voglia di tornare a fare la differenza, è pronto ad accettare la nuova sfida. Il bottino messo via nel quinquennio precedente parla al posto suo. I giocatori anche. Di lui Patrice Evra, non certo l’ultimo della fila, ebbe a dire: “Prima del match di Champions con il Dortmund ci disse in quali spazi avremmo dovuto inserirci, perché i giocatori del Borussia li avrebbero lasciati liberi. In partita rimasi esterrefatto: quei corridoi erano proprio dove lui li aveva indicati. Fu il match più facile della mia vita”.

Chi dalla Juve è soltanto transitato è il “Comandante” Maurizio Sarri. L’ex banchiere che ha devoluto la sua vita al pallone ha appena fatto in tempo a conquistare l’ennesimo scudetto, prima di finire nel compulsivo tritatutto che ha caratterizzato l’ultimo biennio bianconero. Ora lui, le sue tute e quelle sigarette perennemente accese si imbarcano per una nuova sfida: la sponda biancoceleste di Roma, un presidente vulcanico, una piazza che negli ultimi anni si è fatta il palato fine grazie agli implausibili sfracelli compiuti da Simone Inzaghi, seconda scelta mai così fortunata dopo il gran rifiuto di Marcelo Bielsa. Dalla Sangiovannese alla città eterna, sembra trascorsa un’era geologica: in mezzo una caterva di risultati squassanti per il calcio di provincia. Il glorioso periodo all’Empoli che gli vale le attenzioni del Napoli, quel calcio che si stappa come una bottiglia di Dom Perignon, l’Europa League al Chelsea – dove sfoggia l’esportabilità del suo pensiero – e lo scudetto in bianconero. A Roma dovrà succhiare al massimo dal nettare umano a disposizione, sempre che Lotito non si decida ad aprire un pertugio più ampio nel portafogli. La Lazio dell’ultimo periodo, infatti, è stata una creatura radiosa ma corta di uomini. Sarri – che ha navigato nelle asperità del calcio locale senza mai affondare – potrebbe essere l’uomo giusto per la vocazione europea delle aquile. La scommessa insomma è reciproca e i tifosi non vedono l’ora di strofinarsi gli occhi con quantità di palleggi mai banali e verticalizzazioni improvvise.

Da ultimo, ma non meno degno di considerazione, arriva Leonardo Semplici. Lui la panchina l’aveva già ritrovata in corsa, a Cagliari. In Sardegna lo avevano richiamato per compiere un’impresa che appariva impossibile: salvare una squadra confusa, sfibrata, con una gamba intera già pericolosamente oscillante sul ciglio della retrocessione. Semplici, tuttavia, possiede il talento raro di chi sa come rivitalizzare un gruppo. Dalle imprese con la Spal in poi, il suo è stato un percorso che ha infuso qualità, serenità e determinazione applicate al calcio. Fiorentino di nascita e di carattere, dopo una carriera inizialmente scandita dai club della provincia toscana e dopo il gaudente periodo al timone della viola primavera, a Ferrara incontrava un buen retiro. L’ennesima impresa messa via – che è valsa la riconferma – testimonia il carisma di un mister che adesso riceverà rinforzi pronti a rimpolpare la rosa rossoblu, per alzare ulteriormente l’asticella dell’impossibile.

Quattro uomini, quattro allenatori, ma soprattutto quattro toscani purosangue ai nastri della nuova Serie A. Sferzare sfere di cristallo è sempre operazione improvvida. Quel che è certo è che ci sarà da divertirsi.

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