Ilaria Clara Urciuoli

Irriverente, sfacciata, piena di un umorismo talvolta estremo, provocatoria, un invito indeclinabile ad accomodarsi su una poltrona scomoda ma dalla quale non ci si può né ci si vuole alzare. Così l’opera di Chiara Fumai ci costringe a interrogarci, a confrontarci e a fare i conti con un tema tanto storico quanto attuale: il difficile equilibrio tra i generi. A tre anni dalla prematura scomparsa il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato ci propone una retrospettiva dal titolo “Poems I Will Never Release” (2007–2017), mostra che realizza la complessa opera di traduzione in forma materiale delle performance di Chiara Fumai.

È proprio il titolo, suggerito da un autoritratto incompiuto dell’artista, a mostrarci quanto la parola, quella degli altri o quella drammaticamente taciuta, sia stata spesso protagonista nell’opera di questa artista donna che al tema del femminile e al femminismo ha dedicato molto del suo lavoro facendo parlare, ospitando e incarnando altre donne, protagoniste dimenticate della nostra storia, personaggi appartenenti a momenti diversi ma tutti accomunati dallo stesso bisogno di essere e di affermare il proprio essere in una società che invece ha riconosciuto e spesso ancora riconosce l’uomo e il maschile e su questi si muove e si organizza.

Prorompente la sua forza in I Did Not Say Or Mean “Warning” presente nell’esposizione curata da Milovan Farronato e Francesco Urbano Ragazzi in collaborazione con Cristiana Perrella. Nella performance, che gli valse il premio Furla 2013, la Fumai veste i panni di guida museale della collezione d’arte della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Nel suo percorso la guida illustra ritratti di donne “assenti”, prive di forza vitale, finché quelle stesse dame rappresentate nei quadri e condannate al silenzio da una storia patriarcale cui non potevano sfuggire, irrompono nella scena impossessandosi della guida e della Fumai che usando il linguaggio del loro tempo prestava loro voce ed energia. L’intensità cresce ed è destinata ad esplodere in un silenzio pieno di significati quando la voce cede il passo al linguaggio dei segni e a raccontarsi è una terrorista suicida le cui parole risuonano ancora, almeno in alcuni suoi toni, dolorosamente attuali: “Sono conservazione, autoconservazione, la vita quotidiana, adattamento, mediazione del conflitto, il rilascio della tensione, la sopravvivenza degli oggetti del mio amore. Nutrimento, sono tutto questo contro me stessa, contro la possibilità di capire chi sono.”

In un collage di epoche e forme diverse la Fumai riuscì a rompere gli schemi portandoci per mano in una casa bianca da cui scappare appena l’ospite lascia la stretta (performance realizzata per dOCUMENTA) o proiettandoci in una galleria d’arte la cui protagonista, circondata da art handler armati e in passamontagna, muore avvelenata lasciando il pubblico in attesa per 50 minuti di un colpo di scena che non verrà; o ancora quando legge con prorompente ironia il manifesto S.C.U.M di Valerie Solanas.

La mostra ripercorre questi momenti e presenta molto altro con l’intento di rivisitare il lavoro dell’artista, preservarne il lascito e trasmetterlo a un vasto pubblico. A tal scopo hanno lavorato congiuntamente il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci e Centre d’Art Contemporain Genève (luogo da dove l’esposizione è partita nel 2020), collaborando con La Casa Encendida di Madrid e La Loge di Bruxelles (che ospiteranno nei prossimi due anni l’esposizione) e con The Church of Chiara Fumai – l’ente incaricato di preservare la memoria e il patrimonio dell’artista.

Affianca la mostra una monografia curata da Francesco Urbano Ragazzi, Milovan Farronato e Andrea Bellini che rappresenta una chiave d’accesso limpida e appassionata per comprendere un’artista tanto irriverente quanto anticonvenzionale.

Ma la riflessione sul femminile non si estingue nell’esposizione su Chiara Fumai. Il centro Pecci infatti dedica al tema un’altra esposizione CultFiction che si muove su canali completamente diversi ma analogamente interessante. Protagonisti i film a luci rosse degli anni tra il 1978 e il 1980 e in particolare le locandine fotografate per le strade di Napoli e Aversa. Il nuovo fenomeno che si viveva in quegli anni, l’apertura nel nostro paese delle prime sale cinematografiche specializzate nel genere, è qui esplorato attraverso 60 scatti che ci spingono ad interrogarsi su similitudini e differenze, su cause e conseguenze di momenti storici.

Come sempre quando si parla di temi di forte impatto sociale, sarebbe bello conoscere le reazioni dei giovani a queste istallazioni. Nei loro occhi potremmo leggere il domani.

Ilaria Clara Urciuoli

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