Paolo Lazzari

I piedi sono sempre stati poco educati. La corsa un po’ sgraziata. Gli interventi ruvidi, seppur appropriati. Dove la tecnica mancante rischia di divenire lacuna insopportabile, lui sopperisce con una determinazione feroce, mista ad un tempismo che – come in tutti gli affari della vita – determina la sorte dei mortali. La carriera di Giorgio Chiellini se ne sta lì, vessillo inesorabile, a raccontarci che il pensiero unico incistato nel mondo del calcio può anche essere sgretolato. No, non bisogna per forza saper accarezzare il pallone. Non servono soltanto cambi di gioco chirurgici. Una squadra è un miscuglio composito. Un intreccio di anime differenti che messe a fianco dell’altra si completano vicendevolmente. Perché, in una squadra, serve anche chi è disposto a fare a sportellate. A godere del sangue che si mescola alla saliva e va a conoscere il palato. Ad indossare un turbante o una maschera pur di restare in campo.

Giorgio nasce a Pisa per uno di quei dissacranti colpi di genio del destino. L’ospedale sotto la torre è garanzia di maggiore affidabilità, ma il sangue che esplora le vene è già color amaranto. In famiglia se ne accorgono subito di quel gran fisico. Le spalle che si estendono a dismisura, braccia prominenti, leve da Watussi. Allora è deciso: la palla diverrà compagna di vita, ma servirà governarla con le mani, puntando lo sguardo in alto, verso il ferro del canestro. Al giovane Chiellini, tuttavia, basta qualche manciata di tentativi per assimilare una verità inscalfibile: lui e il basket si annusano e non si riconoscono. Il calcio invece sì. Il calcio gli sta bene.

La folgorazione reciproca è così fragorosa che se nel Duemila ti trovi dalle parti di Livorno e getti un occhio sul campo lo vedi lì, a soli 16 anni, mentre entra per fare il suo esordio tra i professionisti. Piccola scheggia infilata tra i ricordi: un giorno trilla il telefono. Il filo agganciato sul fondo del Canale della Manica trasporta una voce britannica. Chiamano da Londra, precisamente da Highbury. L’Arsenal lo ha visionato e lo vuole a tutti i costi. “Ero troppo giovane – confesserà Giorgio in seguito – e mi sarebbe sembrato di tradire la mia Livorno. Per questo decisi di non andare”.

Due stagioni a metter via esperienza, in C1, poi altrettante in B, impreziosite dalla dalla promozione nella massima serie. Brutale ma corretto negli interventi, prorompente, risolutivo là dietro: abbastanza per accendere i sensori sempre vigili delle Big. Roma e Juve vanno alle buste per lui – usanza che rimanda ad un passato di carta ingiallita – e i bianconeri la spuntano. Chiello viene parcheggiato per un anno alla Fiorentina e ci mette molto poco ad imporsi in un ruolo che poi si scucirà di dosso, quello del terzino sinistro. Sì, la corsa è fluida e quando il ragazzo prende velocità partendo da dietro tende a seminare un crocchio di avversari trasecolati alle spalle. Tuttavia il pregio naturale dell’esplosività viene sovente diluito da cross non proprio confezionati a dovere.

La transizione verso il nucleo rovente della difesa, teatro di battaglie per la sopravvivenza reciproca, è soltanto rimandata. Alla Juventus capiscono che devono riportarlo a casa e, anche sotto la Mole, Chiellini riesce ad imporre la sua personalità. Non è certo un caso, del resto, se una semidivinità calcistica come Zlatan Ibrahimovic, interrogato sul punto, replica senza dubbi: “Il difensore più difficile che io abbia mai fronteggiato? Sicuramente Chiellini”. I compagni lo idolatrano, gli avversari lo temono, gli allenatori non possono farne a meno. Con i bianconeri giungono soddisfazioni in serie, la tempesta perfetta di Calciopoli, l’orgoglio di scendere in B e una resurrezione che conduce quasi sul tetto d’Europa. Lui ogni tanto riesce pure a metterla dentro, il più delle volte in mischia. E allora esulta nell’unico modo che conosce, scomposto, animalesco, i pugni che tambureggiano sul petto ed il soprannome da “King Kong” guadagnato in duello. A Torino, insieme a Barzagli e Bonucci, forma la mitica BBC, un trio difensivo granitico che, con Buffon alle spalle, diventa elisir di successi a manovella per la Vecchia Signora.

La Nazionale, seppur avida per lui di grandi soddisfazioni, è una conseguenza inevitabile. Anche in maglia azzurra diventa basamento irrinunciabile e leader di una retroguardia storicamente abilissima nel mettere a disagio i centravanti altrui. Il morso rimediato da Luis Suarez in mondovisione, probabilmente, è il manifesto più radioso di questa attitudine.

Nel frattempo però Giorgio coltiva gli studi. Diplomato al liceo scientifico Federigo Enriques di Livorno, si laurea dapprima nel 2010 conseguendo la triennale in economia e commercio all’UniTo; quindi – nel 2017 – mette via anche la magistrale in Business administration con 110 e lode. Di quanti altri calciatori professionisti si potrebbe dire lo stesso? Per il conto risulterebbero probabilmente sufficienti due mani.

Giorgio, del resto, è questa cosa qui. Un grande gorilla buono che ha saputo arrampicarsi in cima ai suoi sogni facendo presa su un’inconsueta forza di volontà.

 

Foto: Fotogramma (ilGiornale.it)

Autore

Scrivi un commento