Paolo Lazzari

Se il 15 ottobre 1972 ti trovavi per caso dalle parti di Verona, avresti dovuto fare una cosa. Sì, certo: dirlo dopo è facile, ma comunque accetta il consiglio. Sei a Verona, dicevamo. Ecco, raggiungi il Bentegodi, lo stadio in cui gioca l’Hellas. Siediti pure in gradinata o dove preferisci, afferra qualcosa da bere e contempla il campo da gioco: i padroni di casa affrontano la Fiorentina. La accetti un’altra dritta? Tieni d’occhio il ragazzino in maglia viola, quello con il numero otto. Domani il Corriere dello Sport titolerà: “Un giovanissimo Rivera, protagonista di un esaltante primo tempo”. Gianni, del resto, è il suo mito fin da piccolo. Normale che provi ad imitarne le movenze. Meno facile riuscirci. Eppure Giancarlo Antognoni – perché è di lui che stiamo parlando – ha ricevuto in sorte tutti i mezzi necessari per farcela.

Il presidente Ugolino Ugolini l’ha acquistato per 435 milioni di lire pescandolo dall’Asti, in serie D. Quando firma l’assegno ancora non può immaginare che sta mettendo sotto contratto il più grande giocatore nella storia della Fiorentina. Giancarlo infatti è uno che impara in fretta, giostra distribuendo classe a centrocampo e possiede le qualità del leader. Abbastanza per guadagnarsi la mitica maglia numero dieci prima e la fascia di capitano dei viola poi, quando siamo a metà degli anni ’80: a donargliela è Ennio Pellegrini.

Destino e talento, una storia antica come l’universo, ma che ancora non smette di intridere le nostre vite di speranza. Il fato, per Antognoni, ha il nome avvolgente di Firenze e dei suoi colori inimitabili, che raccontano un’anima profondamente identitaria. Alla fine saranno quindici gli anni spesi al fianco dei gigliati, l’unica formazione per la quale giocherà in Italia e pazienza per quella simpatia nei confronti del Milan del suo idolo. Giancarlo diventa così “l’unico dieci“, una bandiera, una ragione di culto, l’eroe alle cui gesta sovrumane appigliarsi nei momenti più tetri.

Che con lui in campo tutto diventi improvvisamente possibile se ne accorgono i Pontello. Sotto la loro gestione la Fiorentina torna a sfiorare il titolo dopo un decennio, arrivando praticamente ad accarezzarlo nella stagione 1981/82. Lo scippo della Juventus all’ultima giornata è una ferita che butterà sangue per sempre, perché il gol annullato a Graziani era regolare ed il rigore concesso ai bianconeri contro il Catanzaro quantomeno dubbio. Antognoni soffre, come tutto il popolo fiorentino, ma avrà modo di rifarsi – parzialmente, ma che soddisfazione – al Mondiale che incombe, quello che si concluderà con il mantra Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo! Eppure anche questo momento potenzialmente epico è scalfito da un incidente sportivamente straziante. Sempre titolare per tutto il mondiale, un brutto fallo subito contro la Polonia in semifinale gli impedisce di partecipare alla finalissima contro la Germania ovest. Più tardi definirà quel frangente come “la più grande delusione della mia carriera, insieme alla partita in cui perdemmo lo scudetto”.

Tonnellate di talento sì, ma anche una buona dose di gravi imprevisti che, nel suo caso, si chiamano infortuni. Il momento più terrificante reca incisa la data del 22 novembre 1981: in uno scontro di gioco con il portiere del Genoa, Silvano Martina, riporta la frattura di alcune ossa craniche e una momentanea interruzione del battito cardiaco. Soltanto il tempestivo intervento del medico rossoblu Pierluigi Gatto e del massaggiatore viola Ennio Raveggi riescono a tenerlo in vita. L’immagine è di quelle potenti. Con quell’enorme giglio scolpito sul petto, l’eroe giace a terra, privato dei suoi superpoteri, ma il trailer è ingannevole: Giancarlo si rialzerà e continuerà a nascondere il pallone agli avversari ancora a lungo.

Quando saluterà Firenze, nel 1987, lo farà lasciando in eredità 341 gare, 61 reti e soprattutto sprazzi di abbacinante bellezza calcistica, di quelli che distribuiscono sorrisi e felicità sui volti stanchi della gente. Trasferitosi per un paio d’anni in Svizzera, al Losanna, decide di dare l’addio al calcio giocato nel 1989. Il 25 aprile di quell’anno, per la sua partita d’addio, il Franchi è completamente esaurito. Le persone cantano il suo nome. Sugli spalti gli occhi diventano acquosi. Antognoni è la Fiorentina e la Fiorentina è Antognoni. Senso di appartenenza, umiltà, qualità superiori messe al servizio di un sogno, quello che coltivano gli sfavoriti, dribblando le sirene dei top club che lo vorrebbero rinchiudere in gabbie di zaffiri.

Di quanti altri giocatori – di quanti altri uomini – si potrebbe dire lo stesso?

 

 

Foto: Violachannel (in alto). Le altre sono tratte da Wikipedia

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3 Comments

  1. Marco Rousseau Reply

    bellissimo articolo, solo un’osservazione: Antonio non giocò la finale dei mondiali per un infortunio, non una squalifica. Alla viglia della finale, tutta Firenze era con il fiato sospeso: Antonio ci provò in tutti i modi fino all’ultimo, ma non riuscì a scendere in campo. Fu sostituito da un giovanissimo Beppe Bergomi, che con quei baffi dimostrava almeno trent’anni, non i diciassette che aveva in realtà

  2. Paolo Lazzari Reply

    Grazie dell’apprezzamento Marco! Hai perfettamente ragione, non siamo riusciti a dribblare una svista, ma abbiamo corretto! Grazie ?

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