Gabriele Masotti

Ci sono eventi che si attendono con trepidazione per il solo fatto di poterli vivere, per esserne testimoni e poter dire un giorno “io c’ero”. È stato così per la finale col Monza, è stato così per Trieste, è stato così anche per il derby Pisa-Livorno del 2009, quello della capocciata vincente di Viviani: sì, la curva Sud era vuota e la Nord era mezza-piena per la protesta dei nostri tifosi, ma in tutti gli altri settori c’erano spettatori e si viveva comunque un clima da derby.

Quest’anno, dopo la sciagurata partita dell’andata vinta dal Livorno con un gol fatto dai nerazzurri, si attendeva il derby di ritorno in casa per una rivincita coi fiocchi: una di quelle partite che devi-esserci-per-forza, perché sai che la vincerai, e potrai così goliardicamente vendicarti delle prese di c… ricevute da quelli che stanno di là dallo Scolmatore.

E invece no. Pisa-Livorno, la partita dell’anno, si è giocata a porte chiuse. Un microscopico organismo, che abbiamo dovuto imparare a conoscere con il nome di coronavirus, ci ha messo nelle condizioni di vivere questa giornata in un clima a dir poco surreale, in cui la voglia e la soddisfazione di esserci si è scontrata pesantemente con il pensiero angoscioso di una situazione complicata, che sta mettendo a dura prova la nostra stessa vita sociale, per non parlare dei pericoli legati alla nostra salute.

Già l’avvicinamento all’evento è stato complicato. La Lega B ha diramato un regolamento molto stringente, che obbligava le società a limitare l’ingresso agli impianti ad un numero limitato di operatori. Solo il venerdì ho saputo che sabato avrei potuto accedere all’Arena. Da una parte la gioia di poter essere parte dell’evento, dall’altra la malinconia per la consapevolezza che non sarebbe stato ciò che speravo.

E così è stato. A partire dall’accesso all’impianto, vincolato alla compilazione di una autocertificazione sull’osservanza delle “misure di controllo e prevenzione necessarie a ridurre il rischio di contagio”. Fredda burocrazia: dura lex, sed lex.

Lo stravolgimento delle consolidate abitudini si manifesta già da subito. Niente accesso al campo, ma salita delle scale verso la tribuna stampa, nessuno scambio di saluti con l’onnipresente Vocina, ma solo un freddo scambio di parole con una (gentilissima) addetta che mi spiega dove potrò stare e dove no. Nessun capannello con i colleghi, ma solo sfuggenti saluti “di gomito” scherzandoci su, ma neanche troppo.

Anche la preparazione dell’attrezzatura non segue il solito rituale, anzi. Le solite, meccaniche operazioni di assemblaggio di fotocamere ed obiettivi vengono sostituite da improbabili e inutili calcoli su quale sarà la migliore combinazione, visto l’inedito punto di vista e la distanza dal terreno di gioco: metto il 300 o lo zoom? E il moltiplicatore? Mentre faccio finta di ragionarci mi guardo intorno, osservo la desolazione dell’Arena vuota e decido di cambiare discorso. Il telefonino. Lo levo dalla tasca, metto l’opzione “panoramica” e scorro: dalla tribuna (vuota) alla curva nord (vuota), alla gradinata (vuota), alla curva sud (vuota), ancora la tribuna (vuota). Non è così che la volevo vedere.

Intanto lo speaker dell’Arena si fa sentire con il saluto di benvenuto. Il copione è pressoché lo stesso di sempre, la voce è squillante come sempre, solo che rimbomba molto di più. Anche lui, forse, si sentirà attore di una recita paradossale, in quel deserto di cemento. Si sarà chiesto: ma a chi parlo? In realtà qualcuno c’è. Una decina di persone affacciate ai balconi dei palazzi dietro la gradinata, qualcuno anche su un tetto. Il professionista fa il suo dovere: anche per nessuna persona.

L’ingresso delle squadre è accompagnato da un contenuto applauso dei presenti, la partita inizia e contemporaneamente inizia il brusio delle voci dei radiocronisti e telecronisti posizionati a pochi metri da me. Lo stesso rumore degli scatti della macchina fotografica sembra sovrapporsi e disturbare quelle voci. Scatto con parsimonia e senza la solita convinzione: contrasti a centrocampo, colpi di testa, ruzzoloni, le solite cose. Controllo il visore e nelle foto vedo tanto verde che fa da sfondo. Vuoi mettere a cose normali, lo sfondo della Nord piena di gente?

Il vocione di D’Angelo rompe il silenzio, si sentono distintamente le indicazioni che dà ai suoi. In campo i giocatori si chiamano in modo concitato dicendo cose incomprensibili, qualche urlo più forte in occasione di contrasti un po’ più duri. Sembra quasi di assistere ad un allenamento come tanti altri, ma è un derby, il Derby.

E finalmente arriva il gol che aspettavamo. Il fendente di Lisi, che passa tra le mani protese di Neri e la testa di Bogdan, provoca un piccolo boato che sorprende anche un vecchio manipolatore di obiettivi come il sottoscritto. O dov’è tutta questa gente? Magia del gol, magia del derby. Ed inevitabilmente il pensiero ritorna lì: t’immagini cosa poteva essere se fossi stato in campo e quell’urlo liberatorio mi arrivava addosso da diecimila ugole contemporaneamente?

Non c’è molto tempo per riflettere sulla questione, perché il Livorno comincia a pressare per ottenere il pareggio e perché , passando il tempo, ci si avvicina alla terrificante “zona Cesarini“, che tante volte quest’anno ci ha fatto soffrire, regalandoci delusioni cosmiche. Gli ultimi minuti scorrono lentissimi in un apnea infinita, mi accorgo che dietro la mia macchina fotografica non c’è più il vecchio manipolatore di obiettivi, ma il bambino che sogna di vincere la partita dell’anno, e per quei minuti non esiste altro: solo il Pisa che deve levarci le gambe, indenne.

Il fischio finale dell’arbitro ci regala una vittoria meritata, in campo i nostri fanno festa mentre i livornesi hanno qualcosa da recriminare. Qualche secondo di godimento, subito sedato dal ritorno alla cruda realtà non appena lo sguardo si alza verso gli spalti desolatamente vuoti. Rimetto a posto l’attrezzatura, controllo al computer le immagini essenziali che dovrò inviare, ascolto i radiocronisti chiudere la loro diretta, sento in lontananza qualche clacson. A cose normali ci sarebbe stato da correre sui lungarni per vedere i festeggiamenti dei nostri tifosi. Stavolta invece bisogna tornare subito a casa.

Scendo le scale, mi affaccio al piazzale retrostante la tribuna, dove le forze dell’ordine aspettano le squadre per accompagnarle ai rispettivi luoghi di raduno. Dietro una delle reti che delimitano il piazzale, una decina di persone lancia una specie di coro di festeggiamento; senza neanche troppa convinzione, direi.

Mi dirigo verso l’auto, per una volta parcheggiata vicinissima, rimuginando su cosa poteva essere e non è stato, e con in testa l’auspicio che un po’ tutti, vivendo questa giornata, devono essersi augurati per se stessi e per gli altri: di poter tornare presto alla normalità.

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