Maria Cristina Rosso

Sono trascorsi quasi sei mesi dal nostro rientro. Un viaggio che voleva essere cammino e che si sviluppò attraverso un itinerario che toccò velocemente Lucca, per poi navigare giorni e giorni nella Val d’Orcia da Sant’Antimo a Chiusi, passando per Pienza e Bagno Vignoni con base a Montepulciano. Riprese poi nella seconda parte verso Cortona, Arezzo, Poppi e Campaldino per fermarsi infine nella Val d’Arno e salire a Pratomagno, Monte Secchieta e Vallombrosa. Un pellegrinaggio intrapreso affinché il frastuono di Milano, dell’ufficio e della mente stanca s’affievolisse in un silenzio con le nuvole dentro. Una serena peregrinazione, a tratti impegnativa degna del percorso esoterico di Pinocchio.

Arrivammo a Montepulciano al termine di una lunga giornata grigia, dopo aver lasciato Lucca, schivando nuvole minacciose e scrosci violenti. Salimmo le scale piovigginando i nostri corpi e le nostre valigie sui gradini di pietra, desiderando un caminetto acceso, sebbene fosse luglio.

Il mattino dopo mi ritrovai in una cucina che si affacciava su un mare di campi mentre all’orizzonte sul lago Trasimeno a sinistra e sul laghetto di Chiusi a destra, si specchiavano i primi raggi, appena nati eppur rabbiosi da coprire tutta le acque di carta stagnola, due specchi messi apposta per accecarmi. Preparai la colazione e pensai che sarebbe stato bello avventurarmi giù per quelle tegole rosse che si aprivano a ventaglio sotto la finestra e coricarmi tra le onde di quel tappeto di fieno.

La Val D’Orcia, a rischio d’apparir banali, è proprio una valle d’oro. Un regno di Oz visto attraverso il negativo di una fotografia senza tempo, dove solo i sentieri ed i cipressi sono verdi e tutto il resto un accavallarsi di covoni al sapor di senape, siepi, selciati, palazzi dai mattoni ambrati, muri di cinta, torri e chiese dipinti di zafferano con raggi di bronzo, rame e perle di fiume a riflettere il sole. Muri che raccolgono lo scorrere del tempo. Una terra che l’uomo cerca di doppiare ordinando la bellezza di cielo e terra, sfumando con pastelli colorati.

Mi capitò d’ascoltare un pianoforte mentre imitava un volo di rondini e di sussurrare nell’aria calda affinché interrompesse il rumore improvviso dell’estate. Io e la mia amica Barbara vagammo in quel mare di grano assente, ritrovando poi la rotta tra file di cipressi disposte come coordinate da un pittore lucido e paziente.

Il terzo giorno ci capitò di girare in tondo per ore prima di trovare lo sterrato che ci potesse condurre alla Madonna di Vitaleta, che, mentre scleravamo con mappe e segnali gps impazziti, se ne stava lì magnifica in mezzo alla valle come fosse stata una rimessa per gli attrezzi che la natura ripone ogni sera. Una volta raggiunta l’osservi nelle sue proporzioni, ne ammiri il dolce paesaggio che la circonda, come fosse una gigantesca torta mirabelle e non sai dire perché sia sorta lì nel nulla se non a proteggere le coltivazioni ed esortare al rispetto ed al silenzio. Perché la Toscana è una fiaba al di là del bene e del male, senza morale. Dio ed il Diavolo, la vita e la morte non fanno paura. È il percorso iniziatico di un burattino di legno alla ricerca di sé e della sua umanità. Nemmeno un taglio di fiorentina di due, tre chili non subisce condanna ma ti viene portata al tavolo senza vergogna su di un foglio di carta oleata pronta ad essere cotta con tanto sangue. Non ti stupisci perché fa parte del tutto.

In genere quando viaggio mi sento un corpo estraneo ed allo stesso tempo una privilegiata e so di dovermi muovere sottovoce, con delicatezza per non disturbare il ritmo quotidiano dei luoghi ai quali mi affaccio curiosa. In Toscana no, pare di visitare un paese dei balocchi, non hai orari o regole da infrangere perché il giorno nasce e muore assecondando i tuoi desideri. È come se tutto il mondo attorno avesse rotto le righe. “Mietete, battete, il tempo l’avete, bucate la botte che il vino bevete”, cantano le cicale.

Cerchi un bar aperto alle 7 di mattino, per far colazione sotto casa, e non lo trovi perché è troppo presto e sono ancora chiusi. I supermercati invece rimangono nascosti dietro alle piccole botteghe, che ancora resistono, e li devi cercare come fosse una caccia al tesoro.

Noi gente di pianura, cresciuta a Nord del Po, guardiamo questa terra di mezzo con un misto di invidia e diffidenza. Un regno dove la natura, i borghi e le linee sinuose dei sentieri lottano in pace e si dispongono come versi aulici tra i gironi danteschi. È pur vero che ci aspettiamo una terra rustica che parli alla pancia con pietanze, stoviglie ed intrattenimento in stile medioevale dove tavoloni di legno e scodelle di terra cotta vengono concessi solo a chi sa apprezzare. Per cui appena la nebbia inizia a diradare tra i solchi opachi e i primi declivi appaiono all’orizzonte, ci sorprende che vi abbiano messo in prosa la bellezza e possano conservare un’armonia che permetta a noi viandanti di ricongiungerci al divino.

Si respira ancora una saggezza antica che rimane intatta per mettere in salvo l’anima passando attraverso passioni ed intelligenza.

Ci trovi il vero, il buono e lo splendore tutti insieme racchiusi in un “arsomiglio” aretino. Quella parlata sfrontata, a tratti aggressiva che quasi tutto mette in beffa per non prendersi sul serio, che troppo faticoso sarebbe reggere il peso di un dipinto che consuma la vista.

Per cui è un continuo farcire quel loro periodare di colorite espressioni che alleggeriscono la mente ed il cuore. Ci sono i “botuli” ringhiosi che hanno il garbo del ciuco a bere a boccia. Gli chiedi dove si possa trovare uno sportello bancomat e prendono a recitarti una filippica sulla delinquenza delle banche in mezzo alle vetrine dei negozi in una via gremita di gente che passeggia.

Se sei una commessa e non ce la fai più è perché i clienti ti han fatta morbida allora puoi rispondere che in compagnia prese moglie un frate sicché durò tanto quanto un gatto sull’Aurelia. Così a noi assetate di luce e polvere non è rimasta altra via se non divinare le varie tappe da un mazzo di carte fatato e farci condurre a rotolone, attraverso i sentieri di preghiere e battaglie.

A Sant’Antimo ho mangiato il miglior capocollo della mia vita e ci ha sorriso il cane Rocco che vegliava le pie donne mentre preparavano i pici freschi. A Londa, di sera, ci accolse la gattina Luce che, a baco, con noi si mise a guardar le stelle. Attraverso sentieri illuminati da farfalle e libellule azzurre ci siamo perse e poi ritrovate per cantare a squarciagola e doppiare stormi di cavallette deliranti. È stato meno duro patire il caldo, quando subito dopo potevamo assaporare le ombre dei boschi tra frassini ed abeti “Che fronde hanno di smeraldo e pomi d’oro”.

Infine si è rivelato liberatorio poter piangere davanti ad altari di legno e ad angeli dallo sguardo diabolico per poi abbeverarci con abbecedari alchemici.

Finché l’aquila restò senza penne e noi burattini un po’ meno di legno si tornò da dove si venne.

Maria Cristina Rosso

Foto: Maria Cristina Rosso

 

 

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