–  Antonio Cassisa

L’altro giorno è spuntato in casa mia, insieme alla frutta, un pacchetto di nespole.
L’ho guardato rigirandolo in mano per capire se fossero davvero loro, se l’avessi confuse con delle albicocche tropicali, se fossero delle zizzole giganti o dei mini meloni giapponesi studiati in laboratorio per occupare meno spazio nel frigorifero. Invece no, Erano davvero nespole!

Non le vedevo da tanto tempo.
O queste dove l’hai trovate ?” chiedo con l’occhi spalancati a mia moglie.
“Al supermercato, mi parevano belle. Ti ci vanno ?” risponde non comprendendo la mia meraviglia.
“Mi ci vanno sì ! Non le mangio da una vita, era il mio frutto preferito!”.

Le nespole. Quanti ricordi spalancano di colpo nella mia mente.

Nel grande giardino del mio condominio, quando a curarlo c’era un portiere che lo rendeva meraviglioso, c’erano diversi alberi da frutta. Un bellissimo albero di ciliege che poi si ammalò, dei susini che poi vennero tagliati perché troppo vicini alle finestre e un paio di alberi di nespole, nel cuore del giardino, lontani da passanti ingordi e da condòmini noiosi.
Noi ragazzi godevamo dei loro frutti, così salivamo in cima al ciliegio a cogliere i frutti rossi che si salvavano dalle mani di chi prendeva senza chiedere o facevamo cadere con delle canne le susine di cui, però, andavamo meno pazzi rispetto a quei due alberi carichi di nespole.

Non erano lisce e rotonde come quelle del supermercato, belle da vedersi ma prive di qualsiasi sapore che ricordasse anche solo minimamente quei frutti grinzosi il cui colore arancione aumentava di intensità man mano che si saliva sui rami più alti, quelli che godevano del sole più diretto. Le mangiavamo direttamente sull’albero, togliendo la buccia e sputando i noccioli dappertutto sul prato fiorito, oppure le facevamo cadere per poi gustarcele seduti alla base di quell’albero non solidissimo ma i cui rami parevano fatti apposta per facilitare le scalate di noi bambini. Erano buone, saporite, dolcissime, e più l’aspetto esteriore pareva sciupato, più erano buone. Sapevamo quali lasciare sull’albero a maturare ancora un pò e la scorta pareva interminabile.

Crescendo perdemmo l’abitudine di salire sugli alberi di nespole, ultimi supersiti di tagli necessari che coinvolsero poi anche la figura del portiere che decretò l’inizio della fine di quel meraviglioso giardino accantonato come tante cose belle del passato.
Da quei semi sputati da bimbetti scalmanati nacquero un altro paio di alberelli di nespole ma non ebbero la stessa fortuna dei suoi più anziani vicini. Nessuno vi si arrampicava e i suoi frutti andavano sprecati prima di lasciare il posto a uno spoglio pratino verde, più facile da gestire.

Quel pacchetto di nespole è rimasto nella mia cucina qualche giorno in più, fino a quando, un po’ più rugose e saporite, me le sono gustate.
Il piacere del ricordo ha superato quello del gusto ma il giovamento finale è valso il costo di quel frutto certamente non all’altezza dei suoi predecessori.
E se mai un giorno avrò un giardino tutto mio, questo sarà il primo albero che pianterò.

Antonio Cassisa
(dal blog I Penzieri der Cassisa)

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